Per individuare l’origine di questo genere musicale occorre prima di tutto risolvere il quesito fondamentale che ci permetta di inquadrare con precisione tutto il discorso: “che cos’è l’HR?”
D’istinto, la mia risposta sarebbe: “volume, energia e calore”. Questo riferendomi alla fisicità, al rumoroso vigore, alla forza, al coinvolgimento sensoriale che da sempre hanno rappresentato la struttura portante del sound hard, le basi indispensabili per poter dichiarare l’appartenenza a questa scena musicale. Certo si tratta di una definizione semplicistica ed estremamente vaga, che potrebbe però già consentire una scrematura tra formazioni propriamente HR ed altre che vengono considerate tali ma che si pongono invece su un differente piano, vuoi per una maggiore e raffinata ricerca melodica oppure per un impostazione più riflessiva e molto meno immediata.
Possiamo allora configurare l’HR come uno stile ruvido, frastornante, impulsivo, potente, pervaso da uno spirito di concretezza che rifiuta gli orpelli superflui, sorto quasi in contrapposizione agli svolazzi del rock romantico settantiano ed anche in contrasto ad un atteggiamento sottilmente snobistico di vedere il rock solo come genere “colto” ed un po’ elitario, capace invece di proporre un’approccio muscolare, ormonale, di coinvolgere l’ascoltatore in modo totale facendolo diventare parte attiva della musica e non più semplice spettatore, di aver rappresentato la valvola di sfogo delle pulsioni di ribellione dei giovani delle fasce sociali medio-basse?
Certamente si, evitando comunque di scivolare nella superficialità di tanti critici che hanno confuso la rudezza con la sciatteria, l’aggressività con il fracasso, l’essenzialità con l’impreparazione. Parliamo infatti di uno stile che nel suo pluridecennale percorso ha generato (e genera tutt’ora..) straordinari esecutori dal talento sopraffino, prelibatezze strumentali memorabili, esemplari melodie immortali, e non ultimo una insuperabile capacità di assorbire stimoli ed influenze più disparate per filtrarle ed inglobarle in una libertà espressiva limitata soltanto dalla fantasia dei musicisti. La prova definitiva ed innovativa che è possibile regalare emozioni e vibrazioni anche col fragore elettrico, alzando i volumi e schiacciando il pedale dell’accelleratore, dilatando i tempi ed ignorando i limiti imposti dai costruttori di classifiche, giocando sui piaceri del corpo, dei nervi, dell’animo oltre che della mente.
Dovendo cercare un punto di origine occorre risalire alla metà degli anni ’60, periodo che fece da spartiacque tra il rock’n’roll disimpegnato, gioioso, danzereccio degli anni ’50 ed il seguente beat pop melodico con una concezione più matura ed elettrica del rock, portata in prima battuta dalla crescita musicale di Beatles, Rolling Stones, Byrds, ed in un secondo immediato momento dall’esplosione della cultura acid-freak soprattutto Statunitense, con la sua ricerca di nutrimento mentale attraverso il rock e le droghe, e dal contemporaneo indurimento delle trame rockblues prevalentemente Europee, con il quale si abbandonava la purezza stilistica per un suono più rude e sporco unito ad una forte vena d’improvvisazione strumentale.
E’ in questo tessuto in ebollizione e tra i suoi interscambi che occorre ricercare le radici dell’hard rock, uno sviluppo in senso aggressivo e fisico di fondamenti r’n’r, blues, psichedelici ed anche melodici già presenti in forma embrionale o maggiormente estesa a metà dei ’60.
Si può trovare una pionieristica importanza a livello di sperimentazione e di esplorazione musicale nei Velvet Underground di Lou Reed e John Cale, con appoggio esterno dell’artista Warhol, per aver inserito tematiche forti e provocatorie come sesso, droga, morte, nevrosi esistenziale, nella semplicità innocua del beat-pop. Altro piccolo germoglio la rudezza rock-beat degli Who, antesignani del modello di rockstar ribelle e distruttiva, famosi per l’anthem mod “My generation” (1965) ma anche per le infinite risse nei locali e le stanze d’albergo sfasciate.
Altre formazioni certamente ancora raffigurabili come rockblues ma con spirito nuovo, innovativo, sono gli Yardbirds che nel breve volgere di tre anni porteranno nelle loro file tre solisti maestri di fughe liberatorie come Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, ed i Ten Years After di Alvin Lee, la “chitarra più veloce del rock”.
Come detto negli Stati Uniti, specie in California, cresce in popolarità la variante allucinata e acida del rock. In particolare i Grateful Dead di Jerry Garcia, una comunità aperta di musicisti, si libera completamente di ogni limite della forma-canzone scatenandosi in chilometriche jams della durata imprevedibile regolata soltanto dall’assunzione di Lsd. Stessa impostazione per un’altra acid-band rispolverata in tempi recenti da gruppi come On Trial e Baby Woodrose. Si tratta dei 13th Floor Elevators che tra il ’65 e il ’69 producono alcune perle di seminale psych-rock.
Quindi avvicinandosi agli ultimi anni del decennio si verifica un’ulteriore passo avanti nell’inspessimento rock. Comincia a pulsare una corrente forte, energica, più elettrica, un’atteggiamento potente e rabbioso che improvvisamente esplode in un fiorire di formazioni che si gettano a colpi di volume, distorsione, durezza, sulle barriere del rock abbattendole con fragore.
Malgrado la critica musicale si ponga subito di traverso, un po’inorridita da questa evoluzione ancora impulsiva ed istintiva ma già vitale, calda, sanguigna, l’interesse per un rock roccioso e pugnace è subito notevole e ciò contribuisce all’emersione di svariati interpreti. Alcuni di loro bruceranno le loro fiamme in pochi intensi anni, altri resisteranno e saranno i caposaldi hard per un periodo estremamente lungo e florido.
Parlando ancora di pionieri non si può non citare ora due nomi fondamentali: Jimi Hendrix ed i Cream. Il chitarrista di colore rimane straordinario e direi inimitabile per la sua carica di sensualità, di carisma quasi primitivo, applicata ad una tecnica rockblues non convenzionale, distorta, torrida, che ha segnato generazioni di musicisti.
I secondi sono l’archetipo del power-trio che tanto ha dato al rock duro, capaci di coniugare escapismo virtuoso e feeling melodico, compattezza e creatività jammistica. Anche se entrambi non possiamo etichettarli puramente hard come comunemente intendiamo, la loro influenza nell’area è comunque di primaria importanza.
Tra il 1967 ed il 1970 possiamo finalmente delineare un vero movimento hard rock. I tempi sono maturi per un suono che non è più r’n’r, né blues, né psichedelico, ma possiede al suo interno un po’di tutto questo incrementato di potenza e di volume. Sin da subito s’intuisce che l’hard non è genere statuario, marmorizzato, al suo interno vengono elaborate influenze provenienti da campi diversi che producono stili interpretativi anche distanti tra loro, andando a formare le varie branche di questo genere.
A San Francisco c’è un trio che suona in maniera deflagrante e violenta, devastando classici blues con pesanti feedbacks e distorsioni inserite in lunghe fughe chitarristiche, sono i Blue Cheer. La loro esistenza sarà breve e folgorante, “Vincebus eruptum” e “Outside inside” i soli lavori significativi ma ancora oggi venerati da schiere di neo-rockers.
A Detroit, la città dei motori dove la classe operaia è una forza che ha peso, piace quel sound rumoroso che ricorda i ritmi ossessivi della fabbrica. Oltre ad un imberbe Ted Nugent che sferraglia rozzamente con i suoi Amboy Dukes, nel ’69 gli ultrapoliticizzati e provocatori Mc5 danno alle stampe “Kick out the jams”, disco che può a ragione fregiarsi del titolo di pietra miliare dell’hard rock. Irruento, bruciante, furente, stroncato anche per motivi politici dalla critica importante ma adorato dalla nascente audience hard, a causa della sua carica esplosiva sarà gloria e maledizione per la band, che osteggiata in ogni modo si dissolverà pochi anni dopo.
Altra formazione bollata dagli esperti come rozza e fracassona è il power-trio dei Grand Funk, i quali invece a mio parere incarnano positivamente lo spirito hard: riffs granitici, ritmi possenti, assoli travolgenti, ed un tocco di sana e maschia melodia. Il primo lavoro è “On time” datato ’69, ma il meglio lo daranno all’inizio della decade successiva.
Restando in Usa è giusto ricordare i tribolati Canned Heat, pure loro dibattuti tra blues, rock, sperimentazioni psych e abuso di stupefacenti, cosa che limiterà il loro indubbio potenziale, gli Humble Pie di un giovane Frampton, gli Iron Butterfly ricordati praticamente per un solo album ma di portata storica, ed ancora lo stravagante Don Van Vliet, meglio noto come Captain Beefheart, discepolo di Frank Zappa e paladino di un rockblues anarchico ed estremo.
Si notano le prime notevoli differenziazioni, nel ’69 esordisce con l’album omonimo la Allman Brothers Band. Blues e soul, country e rock’n’roll, jams torrenziali e la slide di Duane Allman, sono i primi vagiti del southern rock.
Stesso anno, prodotti da John Cale dei Velvet Underground, debuttano gli Stooges guidati da un fantastico animale da palcoscenico che si fa chiamare Iggy Pop (vero nome James Jewel Osterberg). Il gruppo si consumerà tra gli eccessi in brevissimo tempo ma lascerà due dischi di meraviglioso rock ruvido, ribelle ed allucinato: “Stooges” e “Fun house”.
Ancora in tema acid-rock e proto-hard i Quicksilver di John Cipollina, che in “Happy trails” (’69) toccano gli apici dell’improvvisazione chitarristica, innumerevoli i tentativi di emulazione fino ad oggi.
Nel vicino Canada si mettono in luce gli Steppenwolf, il loro primo lavoro del ’68 contiene “Born to be wild” considerata da molti il vero principio dell’anthem hard (e magari proto-metal per alcuni..). Canzone utilizzata nel film-cult “Easy rider” trascinerà l’album al sesto posto delle charts Usa.
Sono le prime grandi affermazioni commerciali del nuovo genere, che incrementa ulteriormente la sua popolarità durante i festival-happening del periodo.
Se negli Stati Uniti il rock grintoso comincia a decollare, dall’altra parte dell’oceano, in Gran Bretagna, muovono i primi passi formazioni che lasceranno segni indelebili nell’epopea musicale.
Il ’68 è l’inizio della eterna storia dei Deep Purple, cominciano con il singolo “Hush” e l’album “Shades of Deep Purple”. La line-up è quella chiamata Mark I con Nick Simper e Rod Evans, ma in patria il successo è minimo perché i giovani sono affascinati da un altro filone che si sviluppa nel periodo: il romantic rock o progressive rock. I Purple si vendono meglio nel mercato Americano anche con i due lavori successivi, per la consacrazione mondiale dovranno attendere il nuovo decennio ed il celeberrimo “In rock”.
Parte molto meglio l’avventura degli altri colossi Britannici, i Led Zeppelin. Non mostrano le velleità sinfoniche dei Purple e puntano invece sulla trasformazione del rockblues classico alla Cream, che Page conosce bene, in un nuovo modulo hard rock, aggiungendo una venatura di psichedelia. Il successo è istantaneo e travolgente già al debutto, che contiene classici ancora vivi ai nostri giorni come “Dazed and confused” o “Communication breakdown”. Gli Zeppelin, forti di uno schieramento unito e compatto, si superano subito con il capitolo “II” altro totem indimenticabile con brani quali “Whole lotta love”,”The lemon song”,”Heartbreaker”. E siamo soltanto nel 1969.
Sull’isola agisce anche un personaggio particolare di nome Mark Feld, che in arte si fa chiamare Marc Bolan. E’ un ragazzo di bell’aspetto, che ama curare molto il look e vestire in modo appariscente. Tra il ’68 ed il ’70 è chitarrista in un gruppo di folk acustico e psichedelico che si chiama Tyrannosaurus Rex e non hanno praticamente nulla da spartire con l’assalto elettrico dell’hard. Ma lo ritroveremo più avanti negli anni ’70, quando Bolan diventerà in pratica il pioniere del glam-rock con i T-Rex.
Una formazione che avrebbe potuto diventare l’alternativa al duo Purple/Zeppelin è quella dei Free. Loro vantano una coppia che non ha nulla da invidiare a Plant-Page e Gillan-Blackmore, il cantante Paul Rodgers ed il chitarrista Paul Kossoff. Anche il suono dei Free nutre le radici nel rockblues ortodosso e cerca di aggiornarlo in senso moderno. Debuttano con “Tons of sobs” ma il disco che li imporrà all’attenzione internazionale è “Fire and water” del 1970. Purtroppo come magari vedremo in seguito, gravi problemi interni schianteranno la band subito dopo.
Altri citabili tra i pionieri del Regno Unito, anche se ancora molto legati al blues ortodosso, sono i Taste del guitar-hero Irlandese Rory Gallagher, ancora oggi icona della verde isola.
Notevole infine l’esordio degli High Tide, un mix di hard, progressive e psichedelia. Disco ricco di spunti lisergici che troviamo emulati in alcune produzioni contemporanee. Il gruppo vive principalmente dei funambolici duetti tra la chitarra di Tony Hill ed il violino di Simon House in un contesto fantasioso e visionario. L’album è “Sea shanties” (1969).
Sottolineiamo ancora come in prima battuta il neonato hard abbia trovato maggior credito, pur tra mille difficoltà, tra gli irruenti e poco aristocratici Statunitensi, legati al mito dell’uomo rude e ruspante che si lega bene ad una musica carica di energia esplosiva e selvaggia fisicità. Fatica invece ad imporsi in Europa dove per un po’ di tempo prevale la seriosità cerebrale, colta ed intellettuale ma anche a volte triste e depressiva, del prog-rock ridondante e barocco che resterà sempre fenomeno prettamente continentale.
Tra le pieghe dei vari stili ed impostazioni pare giusto segnalare, sempre in riferimento della fine dei ’60, la comparsa di gruppi trasversali e poco collocabili certamente non hard rock ma altrettanto difficilmente classificabili come “romantici”, e di sicuro molto influenti per la scena rock nella sua globalità, due nomi su tutti: Pink Floyd e Jethro Tull.
Qui termina il primo capitolo della storia Hard Rock che non avrà toccato ogni punto rilevante, ma spero almeno quelli principali. Mi auguro di aver reso l’idea di qualcosa di enorme che si mette in moto e trasforma il territorio al suo passaggio, e tutto questo si verifica in un brevissimo lasso di tempo.