Esamineremo gli anni ’70 sezionandoli in diversi capitoli, visto che il decennio in questione è sicuramente il periodo più significativo e memorabile per l’hard rock, oltre che il più complesso, in un certo senso analogo a ciò che saranno gli ’80 per il metal. Non si pretenda un trattato ponderoso perché questa rimane un’iniziativa umile ed amatoriale, ma vista la mole di avvenimenti, artisti, formazioni, dischi, rilevanti nei due lustri, cercherò necessariamente di citarne il più possibile per offrire un panorama d’insieme, lasciando i particolari alla sezione recensioni dove ampliare e completare il discorso.
Torniamo con la mente a quegli anni esplosivi, gloriosi, di grandi trionfi e clamorosi fallimenti, di artisti che impongono il loro marchio nella storia della musica ed altri che chiudono tragicamente le loro carriere, anni di mutamenti frenetici ed epocali in tanti settori sociali, un’epoca così diversa dalle successive all’insegna della stabilità e dell’edonismo sfrenato.Un decennio vissuto di corsa a caccia di emozioni, innovazioni, punti di vista originali e situazioni stimolanti, che in campo musicale ha rappresentato un periodo davvero molto lungo e ricco di ribaltamenti improvvisi ed inattesi. C’è stato tutto il tempo per assistere dapprima ad una gigantesca crescita del genere hard rock che espande in modo entusiastico ed un po’ caotico l’onda pionieristica precedente, poi una stabilizzazione che premia le formazioni migliori o perlomeno le più tenaci nell’affrontare e superare le difficoltà poste sul cammino, infine un repentino e massiccio riflusso causato dalle trasformazioni sociali che incidono pesantemente sui gusti del pubblico, in particolare quello più giovane alla ricerca di nuove vibrazioni che porteranno alla nascita di stili maggiormente aggressivi e provocatori quali l’heavy metal ed il punk.
Già al principio dei ’70 si coglie un nuovo spirito d’urgenza, una voglia irrefrenabile di progresso in ogni campo, di staccarsi definitivamente dall’ottica delle generazioni figlie del dopoguerra. Vitalità, fantasia, entusiasmo, ma anche difficoltà, violenza, contrasti sociali, un fertile terreno chiaroscuro sul quale germoglia la pianta dell’hard rock, che oltre a diventare la principale colonna sonora dell’epoca (insieme al prog-rock..) comincia anche a perdere compattezza ed a frantumarsi in tanti rivoli diversi.
Puntiamo ora l’occhio sull’inizio del periodo per quanto riguarda il Regno Unito, dove improvvisamente esplode un grande fermento per il fenomeno hard rock.
Questo genere è un bimbo che cresce, da neonato diventa velocemente adulto. Il boom commerciale dei pionieri del settore ha convinto le case discografiche ad aumentare gli investimenti, buona parte della critica specializzata si è convertita al nuovo verbo elettrico e spende elogi su coloro che aveva stroncato fino a poco tempo prima, diversi gruppi hanno già stabilizzato la propria fama ed alcuni si sono elevati al rango di vere e proprie rockstars, successo, fama e richezza sembrano alla portata di chiunque.
Soprattutto è aumentato il pubblico in ogni parte del mondo, un esercito di appassionati che decreta risultati economici importanti lanciando i dischi ai vertici delle classifiche ed accorrendo in massa alle esibizioni dal vivo, che per le bands più in vista si sono ormai trasferite dai clubs per pochi intimi agli stadi ed ai parchi con centinaia di migliaia di spettatori.
Una moltitudine di ragazzi si è precipitata ad imbracciare gli strumenti e a martoriare gli amplificatori valvolari, una parte di loro diventerà la seconda generazione di rockers che caratterizzerà il decennio. Con l’aumento dei praticanti unito alla mentalità elastica e priva di sbarramenti che è propria dell’hard rock, nato e sviluppato in un epoca nella quale le barriere venivano abbattute una dopo l’altra, si producono nuove soluzioni interpretative e si accentuano le differenze tra quelle esistenti. Correnti che si allontanano in direzioni sempre più distanti tra loro, che sarà impossibile seguire tutte nei minimi dettagli anche se cercheremo di integrare il discorso prendendo in esame lavori di specifico interesse.
Intanto si comincia nel peggiore dei modi: il 18 settembre 1970, muore a Londra Jimi Hendrix. Le circostanze del tragico episodio non verranno mai del tutto chiarite, ma non sono mistero per nessuno gli eccessi privati del fenomenale chitarrista, figlio di una mentalità votata alla ricerca di esperienze estreme. Troppo blues e acido per far parte del campo hard rock ma anche eccessivamente provocatorio ed aggressivo per rientrare nell’olimpo del rockblues classico. La sua tecnica originale, il suo rapporto fisico e carnale con lo strumento, hanno fatto scuola ad una moltitudine di chitarristi. La sua fine è stato il principio di una lunga serie di magnifici perdenti del rock, come Jim Morrison o Vincent Crane o in tempi recenti Kurt Cobain, nessuno è in grado di figurarseli maturi ed ingrigiti tirare avanti da mestieranti di routine come ce ne sono tanti. Le loro figure, le loro icone, sono rimaste fissate nell’immaginario collettivo all’apice della giovinezza e della gloria, di Hendrix rimarrà sempre negli occhi la chitarra in fiamme a Monterey o il manico della Fender usato come simbolo fallico, simbolo di sesso e di vita. Vita terminata a 28 anni che lascia in eredità soltanto tre stupendi albums da studio ed anche purtroppo un incalcolabile numero di opere postume nel segno della più vergognosa speculazione commerciale.
Per bilanciare questa triste partenza, veniamo ad un avvenimento più felice ed assai importante dello stesso 1970.
Il 13 febbraio esce il disco d’esordio dei Black Sabbath, la formazione che considero più importante in assoluto per quanto riguarda il rock duro. Si sono formati a Birmingham sul finire dei ’60 con il nome di Polka Turk, poi cambiato in Earth. Rischiano subito la sparizione quando Tony Iommi entra per breve periodo nei Jethro Tull e poi, dopo aver stabilito il moniker in Black Sabbath, quando Ozzy Osbourne si mette a collaborare con la psycho-pop band Magic Lanterns. Ma il destino vuole diversamente, e con poche centinaia di sterline il quartetto pubblica l’album omonimo, che in pratica ridisegna i canoni dell’hard rock. La componente gioiosa e solare di questo stile viene cancellata da un suono oscuro, minaccioso, maligno, l’incedere si fa lento e carico di tensione, l’atmosfera è plumbea e gravida di drammaticità, le ancora evidenti tracce bluesy vengono straziate da vibrazioni negative ed agghiaccianti, i primi brividi di paura corrono sulle schiene degli ascoltatori. L’hard rock perde la sua innocenza e diventa adulto, da questo momento niente sarà più lo stesso.
Si è detto e scritto molto sulla collocazione dei Black Sabbath e sulla loro influenza all’interno della scena rock: gruppo hard? Doom? Proto-metal? A mio parere non possono che essere considerati una formazione hard rock, per evidenti questioni temporali ed anche stilistiche, ma è altrettanto vero che i loro primi lavori concettualmente così diversi rispetto alla mentalità dell’epoca hanno spianato la strada ad un nuovo modo di concepire la musica che in seguito partorirà i generi più pesanti. I Black Sabbath era-Osbourne avevano intuito la direzione della musica dura con parecchi anni d’anticipo, perciò il loro lavoro è risultato così influente.
Come prevedibile, i critici inorridiscono di fronte a questa esteriorità occulta e tenebrosa per cui stroncano senza pietà mentre i ragazzi si eccitano e spediscono “Black Sabbath” all’ottavo posto della classifica Inglese, ma è solo l’inizio dell’epopea della band. Nel breve arco di tre anni il quartetto pubblica cinque albums che scatenano una vera e propria idolatria nei loro confronti. Titoli che ogni appassionato è tenuto a conoscere e che se possibile affronterò nei dettagli in uno speciale dedicato al “Sabba Nero”, per ora basti ricordare il mitico “Paranoid”(1970) e le sue immortali “Iron man”,”War pigs” e la stessa “Paranoid”, canzoni coverizzate un’incalcolabile numero di volte dalle più svariate formazioni.
L’isola Europea sta quindi recuperando terreno per quanto riguarda l’hard. Avevamo visto che gli ultimi anni dei ’60 erano stati all’insegna delle formazioni Statunitensi, ora è a Londra che vi sono i movimenti più intensi ed i fermenti più creativi.
I Deep Purple, che avevamo lasciato alle prese con un non troppo esaltante hard rock sinfonico, stanno facendo mutamenti decisivi. Via Evans e Simper, dentro due ex-Episode Six: Ian Gillan e Roger Glover. Nasce il Mark II, la line-up storica per eccellenza. La prima prova è fallimentare, il “Concerto for group and orchestra” placa l’ego smisurato di John Lord ma è un fiasco commerciale, così il gruppo abbandona in fretta le velleità classicheggianti per tornare ad un rock granitico che deflagra nel celeberrimo “In rock”, pubblicato a fine ’70. Potenza di riffs monumentali e spettacolare sensibilità melodica ne fanno una pietra di paragone per gli anni a venire, chiarendo che questo sound è forza e calore, ruvidezza e sensibilità, fragore e passione, in pratica le emozioni della vita stessa.
Anche per loro inizia un ciclo straordinario che comprende “Fireball”(1971),”Machine head”(1972) dove c’è il tormentone insuperabile “Smoke on the water” (ed è il primo vinile che ho comperato!..nda), e culmina con “Made in Japan”(1972) uno dei più bei dischi dal vivo di ogni tempo.
I loro principali antagonisti, i Led Zeppelin, stanno invece già godendo i fasti del secondo strepitoso album che ha garantito loro fama e successo planetari. La pressione del rockstar-system comincia a farsi pesante, così la band si rintana in campagna lontano dal clamore e dalle luci della ribalta. Ne viene fuori la svolta folk e morbida che caratterizza il terzo lavoro. E’ sempre presente il loro hard elegante venato di blues ma ora viene alternato da incantevoli episodi acustici pieni di poesia e vibranti dell’intensa interpretazione dell’ugola d’oro di Plant. Il carisma del gruppo è ormai così consolidato che né la critica ed ancora meno il pubblico battono ciglio a fronte di una modifica assai profonda del sound. Ed infatti l’avvenuta maturazione del gruppo produce uno dei più bei dischi in assoluto di questo genere:”Led Zeppelin IV” o come vuole qualcuno “ZoSo”. Meraviglioso concentrato di intensità e raffinatezza, potenza epica e malinconia cristallina, brani monolitici come “Black dog” o “Rock’n’roll” ed incantevoli ballate folk-acustiche quali “The battle of evermore” e “Going to California”, e su tutto la perla di “Stairway to heaven” da più parti definita la miglior canzone rock di tutti i tempi. Undici milioni di copie vendute ed il dirigibile vola nella stratosfera, e siamo soltanto nel 1971.
A fronte di un’opera di tale livello il successivo “Houses of the holy”(1973), pur ottimo, viene accolto con un pizzico di freddezza e visto come sono andate le cose, si può considerarla una prima avvisaglia della crisi che si abbatterà sul settore da lì a qualche anno.
Ancora Inghilterra, ancora 1970. Esordiscono gli Hawkwind, una psych-band sul modello dei collettivi acidi Californiani. Tutto ruota intorno alla figura del chitarrista-cantante Dave Brock, che si avvale di un fluido giro di collaboratori tra i quali persino il famoso scrittore sci-fi Moorcock. Il primo album esprime già la particolarità della proposta, uno stile allucinato e spaziale quasi totalmente al di fuori della forma-canzone che unisce basi hard rock con liberatorie sperimentazioni psichedeliche. Brani estenuanti che dal vivo si trasformano in veri e propri happening torrenziali di musica ed effetti visivi, i loro concerti sono esperienze così particolari ed aliene da limitare in parte il successo della band, riscoperta negli ultimi anni all’interno della galassia stoner. Gli albums “In search of space” (1971) e “Doremi fasol latido” (1972) definiscono il sound degli Hawkwind in modo più efficace e garantiscono comunque alla band una notevole popolarità in patria. Importante segnalare in entrambi questi dischi la presenza di un musicista ex-Sam Gopal che farà parlare molto di sé in futuro: il bassista Lemmy Kilmister.
Interminabile l’elenco degli esordienti del periodo. A Londra, grazie all’interessamento di Ritchie Blackmore, si mette in luce la formazione dei Wishbone Ash. Si tratta di un quartetto tecnicamente elegante, capace di sviluppare intricati passaggi chitarristici grazie alla coppia Powell/Turner, i cui assoli vibranti e fantasiosi pare abbiano fortemente ispirato uno dei più famosi duetti di lead del metal: Murray e Smith degli Iron Maiden.
I Wishbone Ash aprono la produzione discografica nel ’70 con il lavoro omonimo, ma è con i successivi “Pilgrimage” (1971) ed “Argus” (1972) che giungeranno ad un successo significativo, con il secondo album che salirà al terzo posto delle charts GB.
Altro nome storico in questo strepitoso 1970, gli Uriah Heep. Spesso accostati a Purple e Zeppelin in una sorta di trimurti hard rock, hanno origini che partono da lontano. Il tastierista Ken Hensley ed il batterista Lee Kerslake a metà dei ’60 fanno parte dei Gods, formazione pre-hard della quale fa parte anche Greg Lake, poi negli E.L.P. In seguito Hensley passa ai Toe Fat e poi negli Spice, dove trova il cantante David Byron e l’ottimo chitarrista Mick Box. Nel ’70 il quintetto (Hensley, Byron, Box, il bassista Paul Newton ed il drummer Alex Napier) decide di cambiare il nome in Uriah Heep, personaggio del David Copperfield, e registra il primo album “Very eavy…very umble”. Lo stile è ancora un po’acerbo, passa con disinvoltura da tosti brani hard a ballate quasi progressive, ma si nota già quel bellissimo feeling melodico e dark che caratterizzerà il gruppo in futuro.
Futuro che subito si presenta nebuloso, visto che il debutto viene come al solito stroncato dalla critica e non vende granchè. Andrà meglio con “Salisbury”(1971), a mio avviso miglior espressione degli Heep non fosse altro che per la stupenda ed intensa suite che dà titolo al lavoro, e con i successivi “Look at yourself”(1971),”Demons and wizards”(1972) e “The magician’s birthday”(1972), che oltre ad evidenziare una certa facilità di produzione definiscono il particolare stile hard-melodico che molti considerano all’origine del filone pomp-rock e Aor.
Non propriamente hard rock, ma fautori comunque di un rockblues spesso ed aspro alternato a momenti acustico-melodici, sono gli Humble Pie del talentuoso Peter Frampton. Il chitarrista-cantante dopo i successi pop-rock degli anni ’60 si unisce a Steve Marriot (ex-Small Faces) per formare questa band, della quale si possono segnalare un paio di lavori interessanti:”Humble Pie”(1970) e “Rock on”(1971). Siamo già nel terreno delle formazioni minori ma una scena in salute vive anche grazie alle seconde file.
E di seconda fila, ma di qualità, sono anche i Pink Fairies, gruppo emerso dal sottobosco Londinese per merito di ex Deviants e Pretty Things. Vita brevissima, discografia scarna, ma uno stile di estremo interesse perché anticipa certe soluzioni moderne in ambito hard/stoner. Una pulsante e dinamica struttura hard rock sferzata da frustate psych che troviamo immortalata nei primi tre albums, in particolare “Kings of oblivion”(1973) il quale segna anche una prima fine del gruppo. In seguito vi saranno alcune reincarnazioni, ma di poca sostanza.
Per completare la carrellata sul panorama Britannico, vero motore di questo periodo d’oro dell’HR, bisogna segnalare i primi successi degli Slade, band da considerare tra i fondatori del movimento glam-rock. Una linea rock molto semplice e divertente, che al principio trovò terreno fertile nella working class metropolitana attirata da quel misto di spensieratezza caciarona, allusioni sessuali ed ammiccamenti alle usanze ed allo slang proletario. Discorso pressochè analogo per gli Status Quo, i quali dopo diversi infruttuosi tentativi centrano il bersaglio con “Piledriver”(1973), album di grezzo e semplice hard orecchiabile che li spedisce in classifica. La loro, tra alti e bassi, sarà una lunga ed onorata carriera sempre in bilico tra hard leggero e pop commerciale.
Più raffinati ed ortodossi i Thin Lizzy di Phil Lynott, cantante e bassista ma anche poeta di origine Irlandese, anche lui prematuramente scomparso per overdose nel 1986. Uno stile che amalgamava ad una classica base hard forti venature rockblues e folk-melodiche, che li ha condotti ad un buon successo soprattutto nel mercato Anglosassone. Oltre ad ottimi albums come “Night life”(1974) e “Fighting”(1975) e singoli vincenti tipo “Whiskey in the jar”, va detto che nelle fila dei Thin Lizzy hanno militato musicisti di alto livello quali Gary Moore, Paul Chapman (poi negli Ufo), Brian Robertson (poi nei Motorhead) e molti altri.
Tornando al glam, splende fulgida la stella di Marc Bolan, personaggio la cui vita merita un riassunto. Comincia la carriera artistica giovanissimo nei primi anni ’60, cambia nome d’arte più volte (quello vero è Marc Feld), nel 1967 forma con Steve Peregrine Took un duo folk chiamato Tyrannosaurus Rex. Il risultato è mediocre e l’iniziativa si dissolve agli albori dei ’70. Nel ’71 Bolan è nuovamente leader di un quartetto per il quale ricicla il monicker precedente, accorciandolo in T-Rex. Lo stile è un hard-pop colorito e bizzarro tanto quanto il look della band e sbanca tra il pubblico degli adolescenti. In un attimo Bolan viene eletto idolo giovanile e prototipo della rockstar tutta eccessi e follie. Gli albums “Electric warrior”(1971) e “The slider”(1972) sono successi straordinari. Ma la popolarità consuma e svanisce in fretta. Già nel ’74 la Bolan-mania è passata, il gruppo è allo sfascio ed il leader vegeta negli Usa strafatto di alcool e cocaina. Incredibilmente Bolan trova la forza d’animo per riciclarsi come giornalista televisivo, e poco dopo con un trasformismo degno di Fregoli riesce a cavalcare l’onda montante del punk-rock.
Nel ’77 i T-Rex sono nuovamente in auge, considerati padrini del nuovo dissacrante movimento, vendono molto con “Dandy in the underworld” e vanno in tour con i Damned. Sembra l’inizio di una nuova era per Bolan, ma le storie del rock difficilmente contengono un buon finale. Il 16 settembre dello stesso anno, l’auto sulla quale viaggia Bolan con la sua compagna esce di strada e si schianta in un albero. Per l’artista la storia finisce qui.
E finisce anche questo capitolo dedicato all’hard rock Britannico di inizio “seventies” che ha evidenziato i nomi principali in azione sull’isola. Ovviamente per non trasformare questa guida amatoriale in un mattone indigeribile è stato necessario focalizzare l’attenzione sulle formazioni più popolari, ma è assodata la presenza di una miriade di piccole bands capaci anche di proporre lavori interessanti, e penso a gente come Groundhogs, Warhorse, Arzachel, e tanti altri che cercarono di sfruttare le circostanze favorevoli senza riuscirci pienamente e cadendo in seguito nell’oblìo.
Nel prossimo capitolo attraverseremo nuovamente l’oceano per osservare la situazione Statunitense nel periodo analogo. In seguito parleremo dei cambiamenti che si svilupperanno oltrepassata la metà del decennio.