In campo hard rock gli Stati Uniti entrano negli anni ’70 forti di numerose formazioni che hanno contribuito in modo decisivo a gettare le basi per lo sviluppo del genere. Però come spesso accade nella vita, i pionieri sono coloro che rischiano in solitudine esplorando territori vergini e cercando nuove strade al prezzo di fatiche e sacrifici, per vedersi poi sopravanzare dalle ondate migratorie che li seguono e sfruttano i loro tracciati piene di freschezza e di entusiasmo nuovo. E’ esattamente ciò che accade in quegli anni. La creatività e le intuizioni più brillanti hanno varcato l’oceano per impiantarsi nella vecchia Europa, particolarmente in Gran Bretagna. Mentre da quelle parti crescono formazioni come funghi e si perfezionano le regole dello stile, negli States il motore dell’hard comincia a perdere qualche colpo e stenta a decollare. Il pubblico non manca, l’interesse neppure, ma gli States sono una nazione sterminata nella quale convivono infinite culture e mentalità, a volte diametralmente opposte. Quello che fa moda e tendenza a New York può essere del tutto ignorato o addirittura rifiutato nell’Oregon o nel Texas e viceversa. I gruppi hard che inizialmente erano stati ben accolti per la loro grande energia e per quell’aria “macho” che agli Americani piace tanto, iniziano ad essere osteggiati dai media e da un certo ambiente conservatore che ne intuiscono il potenziale politico nascosto dietro i messaggi provocatori e scorretti. Negli Usa, dove la stampa ha sempre avuto enorme potere ed influenza sulla gente comune, questo significa trovare soverchie difficoltà ad imporsi a livello nazionale. Per molti ottimi protagonisti è sufficiente anche un solo disco dall’incasso mediocre per vedersi defenestrare dalle case discografiche, che oltre ad una spietata mentalità interessata unicamente al business talvolta mostrano di voler approfittare del minimo pretesto per sbarazzarsi di personaggi ritenuti scomodi ed imbarazzanti, in un clima di sospetto tutt’altro che favorevole ad una crescita del genere.
Una delle prime vittime di questa situazione sono i Blue Cheer, oggi spesso rispolverati in ambito stoner, che all’epoca godono di notevole popolarità a Frisco e dintorni ma rappresentano anche il classico gruppo dagli atteggiamenti eccessivi, violenti, litigiosi, e dalle frequentazioni pericolose come quella con gli Hell’s Angels. Arrivano al nuovo decennio con diversi lavori importanti alle spalle, su tutti “Vincebus eruptum”(1967) e “Outside inside”(1968), ma con una line-up barcollante e mutevole come il vento. Malgrado l’instabilità ed una stampa che li martella ad ogni occasione, riescono a piazzare ancora un paio di colpi per sciogliersi poi all’indomani del mediocre “Oh! Pleasant hope”(1970), dall’indirizzo assai distante dai primi seminali albums. Sparisce così uno dei primi gruppi ad aver intuito le potenzialità devastanti del rock aggressivo e distorto ad altissimo volume.
Altro nome conosciutissimo che non regge l’urto con i “seventies” è quello degli Mc5, tra i più antichi progenitori dell’hard. In realtà la fama di questa formazione è legata interamente al primo, fondamentale episodio:”Kick out the jams”(1969), forse il primo esempio di rock abrasivo, tagliente, squassante oltre che fortemente politicizzato e militante. Queste caratteristiche peculiari fecero del disco una fonte d’ispirazione certamente per molti gruppi hard rock, ma anche per il movimento punk che a distanza di molti anni ne esaltò proprio l’aspetto battagliero e dissacrante.
Fu proprio la componente politica smaccatamente esibita a creare il vuoto intorno agli Mc5. Critiche da parte della stampa specializzata e nazionale, accuse di uso e diffusione di stupefacenti, ostracismo da parte di molti colleghi ed anche da una bella fetta di pubblico, tutti ostacoli sulla strada della band di Detroit che culminano con l’allontanamento dall’Elektra, preoccupata dalle conseguenze di avere in cartello un nome nel mirino addirittura del Governo. A questo punto gli Mc5 tentano di fare marcia indietro, ammorbidendo il sound e soprattutto i concetti espressi, ma un paio di albums discreti che provano ad unire rock’n’roll duro e sperimentazione psych e jazz non convincono i vecchi fans e non ne procurano di nuovi, per cui lo scioglimento è inevitabile ed avviene nel 1971.
Non è finita qui. C’è un altro nome glorioso che si dissolve agli albori dei ’70, gli Steppenwolf. Anche se Canadesi di Toronto, la loro carriera si è sviluppata tra San Francisco e Los Angeles iniziando dopo la metà dei ’60. Rock vigoroso ed aspro, venato dal blues, tosto e roccioso, l’album d’esordio omonimo (1968) contiene quella “Born to be wild” che accompagnò le cavalcate motoristiche di “Easy rider”, e che nel tempo divenne l’inno per eccellenza della voglia di libertà nell’immaginario collettivo. Trascinato da questa, e da altre ottime canzoni come “The pusher”, il disco diventa d’oro e lancia il gruppo ai vertici del settore.
Seguono altri ottimi lavori quali “At your birthday party”(1969) con l’hit “Rock me” e “Monster”(1969) ricco di brani dalle tematiche sociali ed impegnate. Ma è sufficiente il mezzo fiasco di “For ladies only”(1971) per provocare lo split-up l’anno successivo. Ci sarà una seconda fase verso la metà dei ’70, ma i tempi sono cambiati e gli Steppenwolf agiscono nell’indifferenza generale pubblicando alcuni lavori di poco interesse, per sparire definitivamente nel ’77.
Formazione certamente importante, ma va detto che la loro essenza rimarrà per sempre legata a quel primo celeberrimo album ed a quel particolare brano, condizione non troppo rara in campo musicale.
Un caso similare è quello degli Iron Butterfly, band dell’area di Los Angeles. Anche loro vengono ricordati per un’unica, indimenticabile, realizzazione:”In-a-gadda-da-vida”(1968) e per la straordinaria suite che dà titolo al lavoro. Un lungo viaggio oscuro ed ossessivo nella fusione di hard grezzo e psichedelia lisergica, il tutto immerso in un’atmosfera drammatica e solenne priva di luce e solarità. Successo oltre ogni previsione e quarto posto nelle charts Usa. Ma la vena creativa del gruppo è già praticamente esaurita. Ancora un paio di lavori meno che mediocri e gli Iron Butterfly si eclissano, tanto per cambiare ancora nel 1971. Alcuni dei componenti proseguiranno poi con Captain Beyond e Cactus.
Se il capitolo precedente era una lunga antologia di debutti eccellenti, in questo abbiamo invece una estesa lista di bands dalla parabola tanto breve quanto fiammeggiante ed intensa.
A questo proposito non si può non citare gli Stooges, anche se non propriamente all’interno del fenomeno hard rock. Gli Stooges sono prima di tutto Iggy Pop (vero nome James Jewel Osterberg), un frontman dalla straordinaria carica energico-sessuale e dotato di un carisma che ha pochi eguali. L’altro personaggio fondamentale per questa formazione è John Cale, artista, musicista, polistrumentista, visionario ed anticonformista, nonché ex-Velvet Underground. E’ lui a prendere i giovanissimi ragazzi di Detroit sotto la sua protezione e a far loro realizzare il formidabile debutto omonimo nel 1969. Rock’n’roll ustionante e trasgressivo, violento ed alienante, un urlo di dolore generato da inquietanti scenari industriali. In questo disco e nel successivo “Fun house”(1970) ci sono i germi del metal, del punk, della musica come eccesso e provocazione, della carnalità opprimente e depravata. Ma gli Stooges non sono estremi soltanto nel sound, il loro stile di vita è un turbine di droga, alcool, psicofarmaci, party acidi ed orgie interminabili ad un ritmo talmente insostenibile che ne causa lo scioglimento appena dopo l’uscita del secondo disco.
Si ripresentano nel 1973, grazie all’interessamento di David Bowie, pubblicando l’ottimo “Raw power” ma in breve tempo i soliti problemi si ripresentano e nel ’74 c’è lo scioglimento definitivo.
Riscoperti negli anni ’80, si scatenerà la solita fiumana di produzioni postume, alcune anche di buona qualità. Citati da moltissimi artisti come fonte d’ispirazione, pur in pochi anni d’esistenza sono stati in grado di lasciare un segno indelebile nella storia del rock.
Se teniamo conto anche della tragica scomparsa del grande Jimi Hendrix, della quale si è detto nel capitolo precedente perché avvenuta a Londra, appare evidente che gli anni ’70 cominciano sotto una cattiva stella per il rock duro Statunitense, con così tanti protagonisti subito fuori gioco.
A tenere alta la bandiera dell’hard tra i nomi popolari resta quello dei Grand Funk, che a differenza di tanti altri evidenziano compattezza invidiabile e prolificità non comune. Guidati dall’abile ex-musicista poi manager Terry Knight, riescono ad elevarsi al rango di vere rockstars. Albums milionari, concerti esauriti nel giro di poche ore, presenza costante nelle classifiche e seguito in ogni parte del paese, rappresentano il volto schietto e privo di fronzoli del rock duro. Grinta enorme ed energia tellurica che consentono loro di realizzare tra il 1970 ed il 1973 la bellezza di sette dischi, tutti piazzati nei primi dieci posti della classifica di vendita. Il trio del Michigan, che dal ’73 diventerà quartetto, non possiede nella propria corposa discografia un vero e proprio capolavoro immortale, quindi di solito viene posto qualche gradino sotto a colleghi contemporanei quali Led Zeppelin, Deep Purple o Black Sabbath, ma la sua qualità media si è sempre dimostrata elevata e priva di tonfi clamorosi oltre ad aver reso economicamente perlomeno quanto quella dei colleghi citati.
Titoli come “Survival”(1971), ”E pluribus funk”(1971), ”Phoenix”(1972), ”We’re an American band”(1973) colgono l’essenza di ciò che intendo per hard rock, un bilanciamento di forza, potenza, ruvidezza, passione, intensità, calore e melodia. Sicuramente i Grand Funk rappresentano una delle migliori espressioni dell’hard Americano nella sua forma basica, priva di orpelli e contorni kitch, e sebbene non disdegnino di trattare argomenti a sfondo sociale ed antimilitarista hanno sempre evitato connotazioni politiche troppo spinte, incarnando tutto sommato il volto spendibile dell’hard settantiano degli States. Magari bollati dai critici “colti” come fracassoni, certo non come pericolosi sovversivi.
Nel senso diametralmente opposto c’è un altro personaggio che raggiunge il proprio apice all’inizio della decade: Vincent Furnier, meglio conosciuto come Alice Cooper. La follia applicata al rock, la spettacolarizzazione estrema di questo genere, la cura maniacale dell’aspetto visivo, la teatralità sfacciatamente esibita in ogni gesto, in ogni occasione, in ogni concerto. Le performances della sua band fanno epoca, sono happening in bilico tra arte futurista e cattivo gusto boccaccesco, horror rock, rock grandguignolesco, tutto accuratamente studiato per creare un personaggio esagerato ma vincente. Bizzarri travestimenti, sangue, serpenti, donne seminude, sedie elettriche, ghigliottine, testi zeppi di provocazioni sessuali e religiose, viene capovolta l’immagine del musicista spartano in grado di offrire solo la propria musica ed il proprio impegno sociale, così in voga nella filosofia hippie a cavallo dei due decenni. Cooper anticipa la voglia di spettacolo ridondante, di gigantismo live e di disimpegno festaiolo che s’imporrà con forza durante gli ’80, a suo modo risulterà un innovatore perchè ogni mascherata contemporanea di qualunque ambito musicale nasce da qui.
Tra il ’71 ed il ’74 realizza una serie impressionante di successi milionari, tra i quali ricordiamo “Killer”(1972) con il famoso singolo “School’s out” e “Billion dollar babies”(‘73) che sale al primo posto sia negli Usa che in Gran Bretagna. E’ il periodo di massima gloria per questo artista dall’interminabile carriera, che ha ispirato un numero incalcolabile di imitatori restando però inarrivabile in fatto di humor nero e pesante sarcasmo, ancora oggi una delle poche vere icone rock globali e al di sopra delle barriere stilistiche.
Possiamo notare che cominciano a materializzarsi differenze di vedute riguardo l’impostazione del genere. Se in Europa l’hard rock punta quasi tutto sulla tecnica elevata, con strutture sempre più massicce, articolate ed aggressive, perseguendo una certa sobrietà nel modo di presentarsi al pubblico e lasciando la teatralità barocca all’appannaggio del rock progressivo, in America si vuole il rock come spettacolo liberatorio, sfogo, esuberanza ed eccesso. Meno attenzione alle sfumature strumentali e più richiesta di chiassoso divertimento, unito ad un accentuato protagonismo degli interpreti.
Questo spiana la strada ad emuli di Alice Cooper che hanno realizzato la necessità di puntare prima di tutto sulle componenti esteriori ed epidermiche del rock, ancor prima della prestazione tecnicamente ambiziosa o del songwriting raffinato.
Si fanno strada ad esempio i New York Dolls, formazione dall’esistenza incredibilmente breve ma fondamentali per consolidare un certo modo d’intendere il rock, nonché determinanti per la nascita del movimento glam ed in parte anche di quello punk.
Si formano come quintetto nel 1972, ovviamente a New York, ed ottengono subito credito nel circuito locale grazie ad uno stile hard’n’roll sporco e stradaiolo, già figlio di Stooges ed Mc5, ma soprattutto per il loro look colorato e truccato all’eccesso nonchè per una condotta di vita nel pieno rispetto della famosa regola “sex & drugs & rock’n’roll”. Aggressivi, esagerati, rissaioli, sballati, riescono a pubblicare soltanto due lavori, “New York Dolls”(1973) e “Too much too soon”(1974), che per la verità sul momento non ottengono granchè successo e praticamente condannano la band alla sparizione nel 1975. Ma gli stessi due albums verranno indicati come anthemici e seminali soltanto poco tempo dopo da diversi alfieri punk, che ne esaltano la carica sguaiata e trasgressiva. Stessa cosa avverrà ancora dopo durante l’esplosione del glam-rock ottantiano, che senza i New York Dolls (oltre a Stooges, Alice Cooper ed ovviamente Kiss) forse non sarebbe mai esistito.
Dunque il panorama hard rock Americano, malgrado alcuni felici casi, nei primi anni ’70 è certamente più stagnante di quello Britannico, in piena esplosione. A modificare parzialmente la situazione interviene un fattore nuovo, l’avvento di una delle tante ramificazioni del fiume hard: il Southern rock.
Un genere nel genere, con i suoi diversi filoni interpretativi e le varie scuole di pensiero, prende origine dove meno te lo aspetti, negli sterminati territori agricoli del sud degli States tra praterie e paludi, cactus e mandriani, là dove regnano le mentalità più chiuse e conservatrici, dove le novità al di fuori delle secolari tradizioni così come gli stranieri di qualsiasi tipo sono guardate con occhio torvo ed ostile. Eppure il movimento nasce proprio tra questi ragazzi allevati a pane e country, tutt’al più rhythm’n’blues, che si sono improvvisamente innamorati del rockblues Britannico e del “nigger” Hendrix. La fusione di queste passioni origina uno stile forte, maschio, grintoso, capace di colpire con durezza ma anche di accarezzare con gentilezza romantica. Soprattutto votato all’improvvisazione, alla libertà d’esecuzione, alla jam torrenziale e priva di limiti.
Su questo genere sono state scritte vere e proprie enciclopedie data la vastità dell’argomento, per cui sarà impossibile in questa sede esaminare a fondo ogni dettaglio. Mi limito a dire che il southern fu una sferzata di energia per lo scenario rock Americano che si propagò lungo l’intero arco del decennio, e che al contrario di ciò che molti pensano non si è esaurito in quel periodo ma ha continuato ad esistere fino ad oggi, rientrando in una dimensione di nicchia che probabilmente era la più consona ad esso. Anzi ultimamente ha trovato nuovo vigore grazie a certe contaminazioni con l’area heavy/stoner/doom. Altro luogo comune ricorrente è quello della presunta pochezza intellettuale dei Sudisti, spesso descritti come trucidi ed arretrati, interessati soltanto al whiskey, alle risse e a trattare le donne come selvaggina, con l’aggravante di una diffusa mentalità xenofoba e razzista.
Indubbio che molte southern bands abbiano calcato la mano su una certa iconografia patriottico-ribelle, sfruttando il forte senso d’indipendenza delle genti del Sud oltre che un mai sopito rancore nei confronti degli “yankees” nato all’indomani della Guerra di Seccessione, ma esaminando con attenzione i testi delle formazioni di spicco notiamo che non si è mai andati oltre qualche innocua nostalgia revanscista e ad una romantica ed un po’ingenua apologia della vita “on the road” e della mentalità limpida, onesta, rude e priva di contraddizioni del “simple man” Sudista.
Ribadendo ancora che ulteriori particolari saranno inseriti nelle varie recensioni, tracciamo un sintetico profilo delle tre grandi “famiglie” musicali che hanno rappresentato il vertice di questo movimento rock: The Allman Brother Band, Lynyrd Skynyrd e The Marshall Tucker Band.
I fratelli Duane e Gregg Allman sono già attivi alla fine dei ’60, in particolare il primo ha fama di grande talento della sei corde ed eccelle come sessionman cimentandosi con uguale bravura in temi rock, blues, country e rhythm’n’blues. Nel 1969 i due mettono insieme la band che porterà il loro nome, ne fanno parte tra gli altri l’ottimo chitarrista Richard “Dickey” Betts ed il drummer Butch Trucks (vero nome Claude Hudson), e nello stesso anno pubblicano l’esordio omonimo. Album portentoso, punto d’incontro tra la forza del rock e la fluidità del blues nella particolare visione di questi giovani figli della prateria. Intensità, leggerezza e strepitosa capacità improvvisativa creano immagini d’immensi spazi aperti e panorami ariosi, entusiasmano e sorprendono le pirotecniche fughe chitarristiche di Duane e Betts, scalda i cuori il timbro soul della voce di Gregg. E’ immediato successo per questo stile elegante e tecnico, denso ed intricato ma accessibile a tutti, venato senza eccessi di vibrazioni psichedeliche e jazzistiche ma allo stesso tempo capace di grandi slanci melodici ed emozionali. Negli anni successivi il gruppo consolida la propria fama con “Idlewild south” (’70) e soprattutto con memorabili prestazioni live testimoniate nello storico “At Fillmore East”, ancora oggi testo base per i musicisti che amano “jammare” sul palco.
La Allman Band è lanciata verso la gloria, il suo rock assume dimensione internazionale superando i confini del southern, tutto sembra girare alla perfezione, ma come accadrà spesso per gli interpreti di questo genere la tragedia è in agguato. Infatti il 21 ottobre 1971 muore Duane Allman causa un’incidente automobilistico. Scompare uno dei simboli della musica Confederata e per la formazione il colpo è davvero tremendo, ma si decide di proseguire. Arriva il tastierista Chuck Leavell, che in seguito formerà i raffinati Sea Level, ed esce l’ottimo “Eat a peach” (’72) doppio album con materiale precedente alla dipartita di Duane Allman, contenente alcune delle loro più belle canzoni come “Melissa”,”Blue sky” o la sconvolgente mezz’ora di jam psichedelica “Mountain jam”.
Il destino però pare accanirsi. A fine anno, sempre nei dintorni di Macon, Georgia, dov’è morto Duane, perisce in un altro scontro d’auto il bassista Berry Oakley. Pur vacillando la Allman prosegue il cammino, pubblicando il suo disco più venduto: “Brothers and sisters” (’73) nel quale la componente country-melodica prende il sopravvento. E’ il momento di massimo splendore, che prelude però ad una crisi devastante. Gregg ha gravi problemi di droga ed una relazione disastrosa con la cantante Cher, il gruppo finisce sotto processo per una storia di stupefacenti, le fratture interne diventano insanabili ed alla fine la Allman Band si sfascia.
Nel 1978 c’è la reunion, in un momento nel quale l’attenzione generale è rivolta al fenomeno punk ed ai primi vagiti del metal. Comunque la formazione sudista può ancora contare sulla solida base dei fans della prima ora e quindi produce alcuni lavori mediocri, il più riuscito è “Enlightened rogues” del ’79, per poi sciogliersi definitivamente agli albori degli ’80.
Ci sarà la rinascita negli anni ’90 grazie al contributo del grande Warren Haynes e del giovane talento Derek Trucks, nipote del batterista Butch, che prosegue tutt’ora con risultati meravigliosi, ma semmai ne diremo più avanti.
I Lynyrd Skynyrd sono indubbiamente la formazione più famosa di questo settore, il nome irrinunciabile ogni qual volta si tratta l’argomento, tutt’ora il simbolo dell’intero movimento southern rock. Oltre trent’anni di carriera, decine di milioni di albums venduti, migliaia di concerti dai piccoli pubs degli esordi alle più grandi arene mondiali, un’esistenza sempre in bilico tra gloria e tragedia, successo e sbandamento, genialità e follia da superstars, che ha fatto di loro uno dei gruppi fondamentali della storia del rock Statunitense in senso generale ed assoluto.
Nascono a Jacksonville, Florida, nel 1970 come One Percent. Il primo storico nucleo comprende il vocalist Ronnie Van Zant, i chitarristi Allen Collins e Gary Rossington ed il batterista Bob Burns. Esordiscono con il 45 giri “Need all my friends” ed il monicker è già diventato quello che conosciamo, una storpiatura di Leonard Skinner il loro poco amato professore di ginnastica. Si esibiscono nel circuito locale, ed il loro boogie-rock aggressivo, muscolare, contaminazione di hard e rockblues Britannico filtrato dalla sensibilità country-melodica Sudista, viene notato dal produttore Al Kooper che li porta alla Mca evitando l’accasamento alla Capricorn, per anni l’etichetta simbolo ed egemone del south-rock.
Intanto arrivano il bassista Wilkeson, il tastierista Powell e la terza chitarra di Ed King, ed il particolare guitar-sound dei Lynyrd esplode clamorosamente nel debutto “Pronounced Leh-nerd Skin-nerd” (’73), uno dei più bei dischi southern di tutti i tempi. Durezza e romanticismo, fragore e sentimento, whiskey e notti stellate, la band incarna alla perfezione il volto sporco e ribelle degli uomini del Sud ma vi aggiunge anche una robusta pennellata di malinconica morbidezza, generando una miscela in grado di soddisfare ogni tipo di palato. “Gimme three steps”,”I ain’t the one”,”Simple man” e soprattutto la mitica “Freebird”, brano epocale tra i più clonati di sempre, garantiscono da subito un successo straordinario che và ben oltre i confini Confederati.
Il secondo lavoro “Second helping” (’74) definisce ancor più precisamente la potenza e la versatilità della band, grazie a veri e propri inni del calibro di “Sweet home Alabama”,”Workin’for Mca”,”The needle and the spoon”, in un disco praticamente perfetto. Per il gruppo comincia una lunga serie di successi planetari che li conduce all’apice della gloria. Ricchi e famosi, idolatrati in patria ed all’estero, con una line-up finalmente consolidata e stabile, nel pieno della maturità artistica e personale, anche per loro arriva implacabile la mazzata del destino. Pochi giorni dopo la pubblicazione di “Street survivors” (’77), con la famigerata e tristemente profetica copertina che ritrae la band avvolta dalle fiamme (in seguito ritirata su richiesta delle famiglie degli scomparsi), un’incidente aereo ad Amite County, Mississippi, si porta via Ronnie Van Zant, il chitarrista Steve Gaines (che aveva rimpiazzato Ed King), sua sorella e corista Cassie e tre roadies della band. La tragedia è di proporzione troppo grande per essere assorbita, ed in pratica segna la fine di questa formazione. Per rivedere i Lynyrd in buona forma bisognerà attendere la metà degli anni ’90.
Concludiamo la succinta incursione nel southern, che per ovvi motivi di sintesi non prende per ora in esame gruppi di buon livello come Outlaws, Blackfoot, Doc Holliday o i “metallari” Molly Hatchet, spendendo qualche parola sulla band fondata dai fratelli Toy e Tommy Caldwell di Spartanburg, South Carolina. La Marshall Tucker Band è idealmente il terzo vertice del triangolo sudista, dove la Allman Brothers esprime il lato bluesy ed improvvisativo del genere, i Lynyrd quello fisico e ruvido, loro ne rappresentano quello country e tradizionale. Sicuramente meno “internazionali” dei colleghi, molto più vicini a quel folk-rock agreste e bucolico facilmente riconducibile agli stati del Sud e ad un immaginario che profuma di polvere e vecchio west, praterie e cow-boys, sin dal principio ben sfruttato dalla band per presentarsi come paladini di una società fieramente legata al proprio glorioso passato.
Uno stile swingante e romantico, reso ancor più arioso da alleggerimenti blues e jazz e da una spiccata propensione verso temi acustico-melodici, espresso al meglio nel periodo ’73-’77 con lavori squisiti come l’omonimo debutto o il mitico “Searchin’for a rainbow” (’75). In seguito la Marshall Tucker Band prese una direzione sempre più patinata e radiofonica, perdendo lo smalto iniziale per un rock-fm di maniera. Purtroppo, cosa ben più grave, nel 1980 perse Tommy Caldwell in un’incidente stradale e tredici anni dopo anche il fratello Toy causa problemi cardiaci, scomparsa che decretò la fine di questa eccellente formazione.
Legati al mondo southern, perlomeno per ragioni geografiche se non per quelle stilistiche e ideologiche, sono i Texani ZZTop, formazione dalla militanza infinita che all’opposto dei colleghi sudisti si sono giovati di solidità e longevità davvero fuori dal comune. Anche loro muovono i primi passi agli albori del decennio con un boogie-rock molto aspro e muscolare, fortemente innervato dal blues ed appena spolverato di feeling southern. Dapprima stentano a decollare, ma grazie ad uno straordinario impatto live la loro popolarità negli States cresce vertiginosamente, così che al terzo tentativo discografico fanno centro con il tosto “Tres hombres” (’73), replicando il successo due anni dopo con il celeberrimo “Fandango”. Hard grintoso e quadrato, allo stesso tempo semplice ed immediato e soprattutto capace d’infiammare il pubblico nei concerti, sono le prime avvisaglie dei mutamenti in atto all’interno della scena Americana che tende a frazionarsi in molteplici direzioni. Una delle principali è quella di un sound chitarristico fragoroso e plateale pensato per le grandi arene e per ascoltatori non specializzati, che fa leva sugli istinti meno affinati proponendo soluzioni elementari, talvolta perfino rozze, mascherando con i volumi assordanti un’anima tutto sommato innocua solo lontana parente della feroce esplosività ribelle degli esordi, un’altra è senz’altro quella che porterà l’hard ad una sempre maggiore cattiveria e pesantezza, schemi man mano più granitici che accenderanno la miccia per la deflagrazione metal, prendendo spunto in particolare dalle nuove intuizioni di un gruppo fondamentale in questo senso: i Blue Oyster Cult. Di loro parleremo però nel successivo capitolo.