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Alternative Rock
E’ veramente difficile identificare precisamente cosa sia oggi l’alternative rock.
Dalla metà degli anni ’80 fino agli inizi dei ’90, con questa definizione s’intendevano essenzialmente una ridda di bands dagli stili piuttosto eterogenei, emerse sopratutto grazie al circuito radiofonico dei collage americani (da cui la definizione iniziale di “college rock”), che arrivavano da un retaggio punk (e post-punk, nonché new wave) e che avevano come denominatore comune la volontà di distaccarsi dal mainstream, di rappresentare, per così dire, un’autentica “alternativa” ai generi di “moda”, i quali dovevano sottoporsi inevitabilmente alle leggi del grande business discografico.
Ecco perché negli eighties la stragrande maggioranza dei gruppi “alternativi” svolgevano la loro attività all’interno di etichette indipendenti (o addirittura si esprimevano attraverso autoproduzioni) ed anche nei rari casi di conquista di un contratto major (vedasi le vicende dei basilari Hüsker Dü e The Replacements, ad esempio) le bands cercarono sempre di mantenere una certa credibilità artistica, ricevendo altresì dalle stesse etichette “maggiori” una cura ed un sostegno abbastanza limitato.
Il vero spartiacque del genere è da considerare il successo incredibile dei Nirvana e del loro Nevermind, nel 1991 (ma non dimentichiamo, inoltre, volendo spostare l’attenzione sulla “Vecchia Europa”, l’importanza di un fenomeno come quello del Brit-pop), anno in cui le grosse case discografiche compresero appieno che anche il rock alternativo poteva assolutamente diventare un “buon affare” dal punto di vista commerciale.
Il grunge diventò, agli occhi del mondo, sinonimo di “musica alternativa” e si assistette ad una vera e propria “caccia” alla “new underground sensation” da lanciare (di frequente praticamente “ad occhi chiusi”) nel mercato, ottenendo spesso scarsi risultati, probabilmente per l’incapacità di saper gestire una situazione tanto diversificata, complessa e frammentata (o per semplice incompetenza?).
Le formazioni maggiormente fedeli alla loro integrità e libertà artistica continuarono ad operare a livello indipendente, riunendosi sotto la denominazione indie rock (in realtà tale definizione viene molte volte utilizzata come un’equivalente di “musica alternativa” tout court).
Come anticipato all’inizio di questa breve disamina, attualmente l’alternative è ancor di più diventato (fatalmente, direi) un “cappello” sotto cui raccogliere realtà musicali straordinariamente diverse tra loro, in cui anche il concetto stesso di “alternativo” perde completamente il suo significato originario.
Ecco che non è infrequente, infatti, vedere contemporaneamente annoverati all’interno di questo genere, R.E.M., U2, Foo Fighters, Placebo, Red Hot Chili Peppers, Linkin’ Park, Franz Ferdinand, The White Stripes, The Strokes, Muse, Radiohead, 30 Seconds To Mars, Mogway, Artic Monkeys, … (tanto per fare qualche nome), oltre ad innumerevoli formazioni “sotterranee”, che forse sarebbero le uniche a meritare davvero tale appellativo.

Grunge & Post-grunge
Solo alcuni cenni su uno dei generi musicali (o sarebbe meglio chiamarlo movimento musicale?) più devastanti ed importanti degli ultimi venti anni, e su come tale breve ma intensissima “mareggiata” ha influenzato il rock negli anni successivi alla sua “venuta”.
Inizia tutto in una tranquilla cittadina boscaiola del nord ovest degli Stati Uniti, Seattle, stato di Washington, dove un giovane laureato dell’Evergreen State College, Bruce Pavitt, che commentava gli avvenimenti musicali underground su di una sezione ad essi dedicata per la testata gratuita Seattle Rocket, e Jonathan Ponemann, che forniva, tra l’altro, il fondamentalmente supporto economico al progetto, diedero vita alla Sub Pop Records (mutuando il nome dalla suddetta rubrica), un marchio discografico assolutamente fondamentale per la nascita e la successiva diffusione del grunge.
Idee chiare sulla scena rock locale e sulle preferenze dei giovani americani, insoddisfatti da troppi anni di musica commerciale e pure troppo “pigri” e conservatori per interessarsi alle tendenze più d’avanguardia, furono gli stimoli primari di Pavitt e Ponemann, ormai certi che i tempi fossero maturi per un “nuovo” suono, in qualche modo nello stesso momento inedito, ma anche non troppo distante da certe forme di “tradizione”.
Nasce così il grunge (termine utilizzato per definire il suono contenuto nell’Ep “Dry as a bone” dei Green River, uno dei primi parti dell’etichetta), un sound che, nella sua varietà, miscela sostanzialmente la smaccata affezione per l’hard degli anni settanta, il punk e il noise, il tutto approcciato con un impeto iconoclasta, che aveva come obiettivo prioritario quello di “distruggere i valori morali di una generazione” (riprendendo nuovamente la celebre descrizione promozionale del dischetto dei Green River).
Da rilevare, inoltre, per comprendere lo sviluppo dell’hard rock moderno (come venne anche chiamato) in questa fase, è anche la metodologia di lavoro utilizzata dalla Sub Pop, all’insegna di una grandissima “passione” e di un’attitudine improntata sul “do it yourself”, sul reinvestire i proventi ottenuti dalle formazioni più di successo nel supporto a continue nuove “scoperte”, in aperto contrasto, dunque, con l’eccessiva ambizione, lo stile “famelico”, l’avidità e la cattiva gestione tipiche delle major labels.
Tra i gruppi che emersero in questo periodo ricordiamo i già citati Green River, da cui nasceranno
i Mudhoney (con il cantante Mark Arm ed il chitarrista Steve Turner) e i Mother Love Bone (con il bass player Jeff Ament e l’altro chitarrista Stone Gossard e dove il cantante era Andrew Wood, proveniente dai Malfunkshun, la cui morte per overdose nel 1990 diede l’input per la nascita dell’estemporanea “all star band” Temple of the Dog), i Melvins, gli U-Men, i Blood Circus, gli Swallow, i Fluid, i Tad (capitanati dal colossale ex-macellaio Tad Doyle, “il più pesante uomo del rock”!), gli Skin Yard del chitarrista e produttore Jack Endino (con Steve Fisk, un altro nome fondamentale della scena), e poi ancora gli Screaming Trees, i Soundgarden del favoloso Chris Cornell, i Pearl Jam (nati dalle ceneri dei Mother Love Bone, con l’ingresso del benzinaio e surfista Eddie Vedder), i nodali Nirvana, gli Alice In Chains, gli Afghan Whigs, i My Sister’s Machine, fino ad arrivare a Gruntruck, Voodoo Gearshift, Big Chief, Pond e Supersuckers, tutte bands che sembravano dover risvoltare come un “calzino” (e per un po’ di tempo l’hanno anche fatto!) il panorama rock internazionale e che invece oggi o sono scomparse, o hanno mutato il proprio approccio, oppure ancora si affidano quasi esclusivamente allo “zoccolo duro” dei loro vecchi sostenitori.
Al passaggio dei Nirvana alla major Geffen, con relativa pubblicazione del blockbuster “Nevermind”, si fa convenzionalmente risalire il momento di “assorbimento” definitivo del cosiddetto Seattle Sound nell’industria mainstream, che nel frattempo, dopo qualche tentativo anche piuttosto brillante, ma non paragonabile ai livelli di vendita ottenuti da quest’uscita (che fece pure da traino a tutto il movimento), aveva trovato il modo di far “fruttare” incredibilmente anche quel rock che voleva essere antagonista.
Da quel momento l’iperbole del grunge acquisì un’accelerazione apparentemente inarrestabile, da “semplice” manifestazione musicale si trasformò in fenomeno di costume (riviste come il New York Times, Elle e Playboy tesserono le lodi del nuovo suono alternativo), coinvolgendo anche un mondo come quello della moda (i Doc Martens, “rubati” agli skin-heads, le Converse e le camicie di flanella a quadri entrarono con prepotenza a far sfoggio di sé nel centro nevralgico dello shopping Newyorkese Bloomingdale) e diventando oggetto d’interesse anche per il cinema (il discutibile “Singles” di Cameron Crowe, dalla comunque pregevole soundtrack), determinando un aumento incredibile di pressione, visibilità e responsabilità su ragazzi che si trovavano improvvisamente catapultati dal mondo dei club a quello fantasmagorico e patinato di MTV.
Quello che successe dopo è fin troppo noto: gli effetti degli “abusi” da successo che si portano via (ufficialmente suicida, anche se non mancano le teorie “alternative”) il vero simbolo (suo malgrado) del genere Kurt Kobain (e qui ricordiamo, a proposito di personalità tormentate in qualche modo vittime della situazione, anche il compianto Layne Staley degli Alice in Chains, ucciso da una micidiale mistura di droga nel 2002), la musica che perde interesse, vitalità e credibilità, fino alla nascita del post-grunge, che tenta di combinare “grosse” chitarre e melodie “ruffiane”, ripulendo il suo predecessore da quella carica “sovversiva” che comunque aveva già perso spontaneamente.
Una nuova forma di rock “radiofonico” (non a caso è anche chiamato “radio rock”) che più che uno stile vero e proprio rappresenta una sorta di “naturale” evoluzione della specie, derivativo senz’altro, e tuttavia con il grande merito di far avvicinare le generazioni più giovani al rock “vero”, quello fatto di riff, ritornelli, sezioni ritmiche “umane”, voci calde e stentoree e sudore.
Qualche nome particolarmente rappresentativo e significativo? I Bush, i The Calling, i Creed, i Days Of The New, i Collective Soul, i Nickelback, gli Staind, i Puddle Of Mudd, i Live, i 700 Miles, fino ad arrivare a 3 Doors Down, Hoobastank, Incubus, Breaking Benjamin, Audioslave e Alter Bridge.
Il grunge è stato prima amato smisuratamente e poi ancora di più odiato, ma se teniamo conto di come i suoi germi si sono insinuati nelle più svariate contaminazioni (pensiamo ad esempio ai fenomenali Tool), della sua “mutazione” in forma post e di quanto sia ancora suonato nella sua forma maggiormente “autoctona”, nelle cantine di tutto il mondo, è innegabile che esso qualcosa “dentro” ha lasciato in molti.

Alternative metal
Nasce negli anni ’90 e si tratta di un’entità assai volubile, che al suo interno coagula davvero molte diverse sfumature.
Con un po’ d’inevitabile “approssimazione” si potrebbe dire che l’intento è di far convivere alcune delle peculiarità tipiche del metal (la pesantezza delle chitarre, ad esempio) con le velleità “innovatrici” dell’alternative rock, con quell’approccio, cioè, “sperimentale” e di contaminazione con altri generi, che di norma è sconosciuto alla rigorosità dell’HM classico.
I gruppi attribuibili a questo caleidoscopico calderone sono veramente molti e spesso proprio per la loro eterogeneità espressiva li troverete associati ad altre tipologie sonore, coniate per tentare di descrivere meglio le singole specificità.
Funk metal, industrial metal, lo stesso nu-metal e ancor di più il crossover (definizione che forse meglio di tutte esplicita questa brama di “globalità” musicale), sono utilizzati proprio per questa ragione, e in qualche modo sono tutti correlabili alla denominazione cumulativa alternative metal.
Tra i pionieri del settore sono da citare sicuramente i Corrosion of Conformity, che sfoggiavano una formazione di tipo hardcore-punk, i Red Hot Chili Peppers, “peperoncini” in grado di tonificare e regolarizzare il metabolismo con rap, funk, punk e metal, gli Helmet, capaci di mescolare post-punk, noise e riverberi di musica d’avanguardia, da considerare pure come tra i principali ispiratori del nu-metal, i Jane’s Addiction, in bilico tra sensibilità “decadente”, psichedelia mutante e vitalità funk (il loro leader Perry Farrell, diede altresì vita ad un festival assai importante e innovativo come il Lollapalooza) i Sonic Youth, l’icona fondamentale dell’attitudine “alternativa”, capace di rumorismi e sperimentazioni estreme e di diventare pure la “madre di tutti i gruppi grunge”, per la sua capacità di coniugarle con la tradizione del rock americano (ci fu chi li definì “il punto di raccordo tra Patti Smith e i Nirvana”!), i Living Colour, tra i primi a spezzare le catene della creatività rock e a sfuggire alle categorizzazioni con un lussureggiante soul-heavy-funk-jazz incendiato dalla chitarra di Vernon Reid, i Ministry e i Nine Inch Nails (ma anche i Godflesh), padri del metallo industriale e poi ancora i Faith No More, che con costruzioni elaborate, melodie accessibili, arrangiamenti evoluti infettati dal rap e dal funky, gorgogli vocali, chitarre massicce e tastiere estetizzanti, hanno (per breve periodo) incarnato il concetto stesso di “meltin’ pot”.
Altri nomi essenziali per influenza e importanza sono i Primus di Les Claypool, autori di una folle ricetta fatta di ricerca sonora e intelligenza (rock, blues, jazz e prog, conditi da uno spiccato e singolare “sense of humor”), i White Zombie, capaci di evocare apocalittiche visioni futuriste, fatte di schegge metalliche, elettronica e frastuoni metropolitani, i Warrior Soul capitanati da Kory Clarke, esempio di come furia hard ‘n’ heavy, misteri new-wave, istintività punk, effluvi psichedelici e messaggi socio-politici possano essere sintetizzati in una soluzione di rara efficacia cerebro-emozionale, i Therapy?, versatile commistione tra metal e grunge, con la “forma canzone” assoluta padrona espressiva, i Mind Funk, fugace e altrettanto accecante lampo di notevole intensità artistica, fino ai Rage Against The Machine, esplosivo cocktail composto da hard/punk, hip-hop e invettiva contro un establishment accusato di fascismo e conservatorismo, ma le citazioni potrebbero essere ancora molte, rischiando di cadere in valutazioni “troppo” personali e probabilmente perdendo di oggettività.
Impossibile, però, concludere questa dissertazione assolutamente orientativa, senza citare i Tool (e gli A Perfect Circle) di Maynard James Keenan, che con la loro incredibile combinazione di malinconia, malessere e rabbia (forgiata di progressive, dark, grunge, psichedelia e aggressione metal/hardcore) rappresentano oggi, senza alcun dubbio, uno dei migliori ambasciatori di questa iridescente (se mai è realmente esistita) “nazione alternativa”.
Capitolo a cura di Marco Aimasso