Questo è l’album che tutti potevano aspettarsi dai rinnovati Helloween dopo il contestato “The Dark Ride”, datato 2000: allontanati Uli Kusch e Roland Grapow (guarda caso i due principali compositori del suddetto disco) e dopo aver dichiarato ai quattro venti di voler tornare al vecchio sound, quel vecchio volpone di Michael Weikath è riuscito ancora una volta a ricostruire la band e riportarne lo stile su binari più consoni. Per inciso, il sottoscritto considera “The Dark Ride” un ottimo disco, coraggioso e innovativo, in cui gli Helloween tentavano con successo la fusione del proprio stile classico con elementi più moderni. Dopo aver ascoltato, invece, le prime tre note di questo nuovo “Rabbit Don’t Come Easy”, apparirà a tutti chiaro che gli amburghesi sono prepotentemente tornati a suonare la musica di un tempo: veloce, melodica e d’impatto, alla faccia delle sperimentazioni e delle evoluzioni. Viste le premesse, ci si potrebbe aspettare una recensione negativa, ma così non è, e non solo perché gli Helloween sono da sempre la mia band preferita: il fatto è che questo disco è sì una spudorata autocitazione, ma contiene delle canzoni dannatamente belle, fra le migliori che Weikath e soci abbiano composto negli ultimi dieci anni. L’inserimento dell’ex Freedom Call Sascha Gerstner alla chitarra è stato evidentemente molto facile, visto che il giovane musicista ha subito firmato tre ottimi brani: “Sun 4 The World”, “Listen To The Flies” e soprattutto la bellissima “Open Your Life”, dal refrain assolutamente irresistibile. Il buon Andi Deris si conferma ancora una volta come un cantante graffiante e versatile, lontano anni luce dallo stereotipo del power metal singer, ma adattissimo allo stile che gli Helloween gli hanno praticamente cucito addosso da quando è entrato a far parte della band. In quanto a potenza e velocità, il nuovo album è forse il più diretto e aggressivo dai tempi dei due “Keeper” quasi a voler ribadire con ancora più convinzione che i veri Helloween sono questi e nessun altro può suonare come loro. Ciò è senz’altro vero, almeno in parte: è vero che fra queste 12 canzoni ce ne sono ben poche che si possano definire originali, ma è anche vero che le “zucche” hanno praticamente inventato un modo di suonare metal che è diventato terribilmente inflazionato ma che è loro più che di chiunque altro. Che dire altrimenti di un brano come “The Tune”, un vero concentrato di metal tedesco che più crucco non si può, oppure di “Do You Feel Good”, “Hell Was Made In Heaven” o del singolo “Just A Little Sign”, tutte veloci, melodiche e trascinanti come ai vecchi tempi? C’è anche spazio per “Never Be A Star”, bel pezzo cadenzato che ha il solo difetto di essere praticamente uguale a “Perfect Gentleman”, (da “Master Of The Rings” del 1994). Comunque “Rabbit Don’t Come Easy” non è solamente costituito da brani orecchiabili e scanzonati, come dimostrano episodi molto heavy quali “Back Against The Wall” e “Liar”, dall’incedere quasi thrash e cattivissima nel cantato di Andi. Nella seconda metà dell’album arrivano anche un’ottima ballad, “Don’t Stop Being Crazy”, e l’episodio più interessante di tutto il lavoro: “Nothing To Say”, lungo brano che si discosta sensibilmente dagli altri grazie ad un’atmosfera tipicamente anni ’70 (il riff principale è eloquente in questo senso) e a stacchi assolutamente strampalati di stampo quasi reggae, che lo rendono uno dei pezzi più divertenti mai scritti da Weiki. E’ doveroso ricordare che le parti di batteria sono state quasi interamente suonate dal grande Mikkey Dee dei Motorhead, che ha temporaneamente sostituito lo sfortunato Mark Cross, ammalatosi proprio in concomitanza con le registrazioni. Inutile dire che Mikkey ha svolto un ottimo lavoro, come si può ben sentire nel corso dell’album.
Per concludere, ammetto di essere stato in forte dubbio sul giudizio da assegnare a “Rabbit Don’t Come Easy”: avrei dovuto ragionare da fan, e quindi elogiare il ritorno alle origini del mio gruppo preferito, oppure avrei dovuto rimarcare il passo indietro fatto in termini di songwriting rispetto a “The Dark Ride”? Alla fine ho cercato di soppesare i pro e i contro e tutto sommato, mi sento di promuovere un album che non fa molto per essere originale ma che è letteralmente pieno di ottime canzoni, solide e convincenti come da tempo non se ne sentivano in casa Helloween. Se questo, oggi, è lo stato di salute delle “zucche”, possiamo davvero aspettarci ancora grandi cose da parte loro!
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?