La più bella sorpresa brasiliana del momento non è il reclutamento di Diego Ribas da Cunha da parte della Juventus (ebbene sì, nonostante il disamore nei confronti del calcio, un angolino del mio cuore è sempre riservato alle vicende della Vecchia Signora), ma bensì la conoscenza con questo brillante duo di AOR-sters proveniente da Rio De Janeiro, che si presenta agli apparati cardio-uditivi degli appassionati del genere col nome collettivo
Highest Dream.
Aiutati da alcuni abili chitarristi in veste d’ospiti, Riq Ferris e Leo Mendes sfornano un godibilissimo dischetto di hard melodico, adulto e, a tratti, magniloquente, che segue le piste “storiche” tracciate da Toto, Journey, Kansas, Asia e Survivor (gli stessi maestri che i due amavano omaggiare con gli Hardhits, la cover-band che li ha visti collaborare per la prima volta) e che potrebbe dunque, per il più classico dei fenomeni di “metempsicosi”, soddisfare anche i sostenitori di Urban Tale, Street Talk, Pride of Lions, FM e Ten.
Forti di un gusto innato per la melodia vitale e capaci di un songwriting ricco di freschezza armonica, gli Highest Dream sorprendono per la facilità con la quale riescono a pungolare i sensi e a conquistare l’attenzione senza grosse pause in un ambito in cui è piuttosto facile scadere nell’emulazione poco proficua.
Ferris possiede un discreto carisma e una buona padronanza del microfono e, anche senza ostentare doti da “mostro” della fonazione modulata, sa sempre come risultare gradevole e si dimostra costantemente in grado di sostenere dignitosamente le varie atmosfere, mentre il suo socio Mendes si occupa con sicurezza del resto della strumentazione, da cui emergono estetizzanti tastiere, gestite dal nostro con raffinatezza, misura ed incantevole tocco pomposo.
“Far away from here”, sconta qualche piccolissimo “peccato” in fatto di profondità emotiva, riuscendo talvolta solamente a lambire quel calore intenso stimolato dai numi tutelari della band carioca, e tuttavia, non avendo a che fare con dei maturi e scaltri professionisti della scena, ma bensì con dei “novizi” (per quanto tutto meno che sprovveduti … i CV sono abbastanza sostanziosi, tra collaborazioni “locali” e nomi dal respiro internazionale, come Ted Poley, Joe Lynn Turner e Tony Martin) a questi livelli di visibilità, non posso che imputarli alla “gioventù” della formazione e perdonarli comodamente in virtù di un lavoro contraddistinto in ogni caso da un valore complessivo tale da rendere plausibile un necessariamente sempre più ponderato investimento economico.
Cresceranno ulteriormente e, magari con l’ausilio di una produzione un po’meno “leggerina” e di una line-up maggiormente consistente, sono convinto riusciranno a convincere in maniera definitiva e incondizionata.
Concludendo con le stesse allusioni iniziali, direi che non siamo ancora al cospetto di
Fenomeni,
Re,
Imperatori o (ex) palloni d’oro con presunte aspirazioni evangeliche, però il talento è già talmente evidente da meritare la considerazione dei più attenti
osservatori del settore.
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