Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: “The days of grays”, sesto lavoro in studio per i finlandesi
Sonata Arctica, non piacerà ai vecchi fan della band. Se ne sono sentite di tutti i colori negli ultimi anni (a ben guardare già dal terzo album “Winterheart's guild”), sul fatto che questa band avrebbe perso in potenza e velocità e i famigerati “Ecliptica” e “Silence” sono stati celebrati talmente tante volte da farsi venire la nausea. O le palle piene, fate un po' voi. Sarà che più invecchio e più divento intollerante, ma a me questa ostinata tetraggine dell'ascoltatore medio comincia ad andare di traverso. E sia chiaro che voglio rispettare i gusti di tutti (tra i quali c'è anche il mio amato direttore, che da tempo ha dichiarato guerra aperta a Tony Kakko e compagni). Il problema è che ormai bisognerebbe aver capito che quelli che un decennio fa sono stati battezzati dalla critica di mezzo mondo come gli “eredi degli Stratovarius” (e basterebbe sentire con un po' più di attenzione “Ecliptica” per rendersi conto di quanto errata suoni questa definizione) si sono già da un bel pezzo lasciati il passato alle spalle. Non ho voglia di ripercorrere tutto il loro cammino artistico tappa per tappa (l'ho già fatto nella recensione di “Unia”, andatevela a guardare), per cui tagliamo corto e diciamo che del tanto mistificato “ritorno alle origini” proprio non c'è traccia, nei solchi di questo cd. Tralasciamo la strumentale “Everything fades to gray”, che funge più che altro da comitato d'accoglienza, ma bastano i quasi otto minuti di “Deathaura” a far capire che Tony ha nuovamente fatto correre a briglie sciolte la sua fantasia. Un brano impazzito, schizofrenico nel suo andamento, pieno zeppo di linee vocali (anche una voce femminile in apertura) assolutamente incomprensibili per chi decidesse di fermarsi “solo” al decimo ascolto. Due le novità: gli strumenti che disegnano trame molto più corpose che nel disco precedente (il nuovo chitarrista Elias Viljianen, qui alla prima prova in studio, ha talento da vendere e si sente) e le massicce orchestrazioni, presenti in gran quantità in quasi tutti i brani. A chiudere gli occhi possono a tratti sembrare i Nightwish ubriachi. O i Kamelot dopo una rissa, scegliete ciò che più vi aggrada. Ma se si sopravvive al primo, più che giustificabile sbandamento, allora vedrete che questo album rivelerà sorprese gradite. A patto che si abbia in corpo una buona dose di pazienza e volontà a perseverare nell'ascolto di pezzi che non si sveleranno a voi tanto facilmente. Lascino dunque perdere i tetragoni di cui sopra, i Defenders of the faith della domenica e quelli che, molto più semplicemente, preferiscono il sano e vecchio speed metal nordeuropeo.
A ben vedere, “The days of grays” è più accessibile di “Unia”. Non in maniera eclatante, è ovvio, ma abbastanza da dare ragione alla band, che ha ripetuto parecchio questa frase nelle interviste dell'ultimo mese. E' un lavoro più aggressivo, più pesante in molti punti (raramente le chitarre erano stare così massicce), orchestrale ma tuttavia non pacchiano (per lo meno la maggior parte delle volte). E' anche un disco molto più triste, cupo e malinconico di quanto non siano mai stati gli altri. C'è un non so che di indefinibile che aleggia tra le varie tracce, un qualche cosa che parla di angoscia e solitudine, di sconfitta e decadimento, e che il titolo riesce solo parzialmente a catturare.
Detto questo, è innegabile che le cose scorrano un po' più lisce e omogenee che su “Unia”, dove ogni pezzo era diverso da quello prima e al suo interno poi non ne parliamo. Qui si rimane spiazzati all'inizio, ma poi un filo conduttore finisce per saltar fuori. Ed è la semplice voglia di fare un bel disco metal, un disco che sia potente e melodico al tempo stesso, che sia efficace pur senza essere banale, e sofisticato senza essere cervellotico. Una bella impresa, non c'è che dire. Ma riuscita quasi del tutto. Ascoltando “The last amazing grays” (che è una versione aggiornata di “Paid in full” ma funziona bene comunque) e “Flag in the ground” (questa potrebbe anche piacere ai vecchi fan) si rimane colpiti dal modo in cui gli strumenti dei quattro sono al servizio delle eleganti linee melodiche disegnate da Tony Kakko. Il quale sceglie per fortuna di esibirsi su registri molto più bassi che in passato, ricordandosi che questi pezzi dovrà anche eseguirli dal vivo. Una buona scelta, che gli permette di valorizzare al meglio gli elementi più originali della sua voce, evitando soluzioni scontate e forse anche salvandosi da futuri guai fisici.
Ovvio che non corre sempre tutto così liscio, e che ci sono episodi che richiedono una dose maggiore di concentrazione: “The dead skin” e “The truth is out” sono forse quelli che si perdono più via, e quindi risultano anche meno riusciti. Per fortuna però abbiamo anche cose come “Juliet” (una vera e propria elegia malata) o “Zeroes”, che per il sottoscritto è il pezzo migliore: una scarica rabbiosa di adrenalina, forse il pezzo più duro che mai questa band abbia composto, e nello stesso tempo i suoi continui cambi di intenzione non fanno sì che non venga meno il filo logico. Ottima anche la ballata “Breathing”, intrisa di malinconia e sofferenza, che si sviluppa attorno ad un cantato di non facile presa, ma tremendamente affascinante: “Tallulah” e “Shamandalie” erano un'altra cosa, ma vale la pena dare una chance anche a questa. “No dream can heal a broken heart” presenta invece alcuni di quegli elementi più tipicamente pop, che qua e là facevano capolino su “Silence”. Chiude il tutto la versione di cantata di “Everything fades to gray”, un piccolo gioiellino per piano, voce e archi, interpretato con magistrale intensità da un Tony Kakko che davvero sembra vivere “giorni di grigio”.
Concludendo, perché come al solito mi sono dilungato troppo, questo nuovo lavoro dei Sonata Arctica ce li conferma come una delle band più interessanti e dotate che oggi siano in circolazione. Non è un disco per tutti: chi ha voglia di lasciarsi stupire e provocare potrà senza dubbio provare l'esperienza. Gli altri è meglio che rinuncino. “Gather the faithful” dei Cain's Offerings sarà certamente in grado di placare la loro voglia di velocità e melodie. A me, spiace dirlo, queste cose non bastano più da anni...