La scena doom/stoner in Italia è di tutto rispetto, e negli ultimi anni ha fatto davvero un grande balzo in avanti, basti pensare a gruppi come Doomraiser o Mydriasi, giusto per citarne un paio attualmente sulla cresta dell’onda, apprezzati tanto qui da noi quanto all’estero. Beh, da oggi un altro nome va ad affiancarsi con prepotenza a quelli appena citati e a tanti altri che arricchiscono questa scena, ed è quello dei
Sesta Marconi.
Originari di Campobasso, ma trapiantati nella capitale, sono ormai quasi dieci anni che lavorano con pazienza e costanza, ma soprattutto umiltà, ritagliandosi un po’ alla volta spazi sempre più grandi e importanti, sia dal vivo che con le loro uscite discografiche, con un’impennata notevole negli ultimi due/tre anni. Dopo un primo demo quasi sconosciuto ai più e anche abbastanza acerbo (ma era più che normale vista la giovane età che i nostri avevano nel 2003), si fanno notare con un ottimo secondo demo, “Ritual kamasutra kitch”, e oltre a raccogliere recensioni entusiastiche un po’ ovunque, catturano l’attenzione dei ragazzi della Metal On Metal, che decidono di puntare sul quartetto molisano per la pubblicazione del loro debut album. Ed ecco quindi arrivare nelle nostre case “Where the devil dances”, che si presenta ottimamente fin dalla bella copertina ad opera dell’artista Giulio Oriente.
Doom ‘n’ roll amano definirsi i Sesta Marconi, ed effettivamente, per quanto bizzarra possa sembrare, la definizione calza a pennello alla proposta dei nostri. Se da un lato, infatti, sono marcatissime le influenze dei grandi del doom, Cathedral, Candlemass e Pentagram su tutti, sono altrettanto importanti gli innesti più rockeggianti, derivanti in gran parte dalla scena psichedelica dei sixties e dei seventies, senza dimenticare gruppi storici per lo sviluppo del genere quali Coven e Black Widow, e un tocco di prog italiano degli anni ‘70. Basta ascoltare il secondo brano, “Skeletons party”, per capire cosa intendo dire, o, per averne conferma, dare un’occhiata al titolo del quarto brano, “Rock and roll voodoo style”, che peraltro racchiude perfettamente la visione che i quattro ragazzi hanno del doom, sia concettualmente che musicalmente.
Quello che però più mi preme sottolineare è l’assoluta appartenenza dei nostri al genere, il che, calcolando che stiamo parlando di una doom band, non è cosa da poco. Niente pagliacciate, niente forzature, i Sesta Marconi mangiano bevono e respirano doom, e questo si evince perfettamente ascoltando le loro composizioni. Cito a tal riguardo “LSWD”, uno dei miei brani preferiti e sicuramente uno dei più riusciti dell’intero album, nove minuti di riffoni che smuovono una casa, pachidermici e pesanti come macigni, sui quali Sergio svolge il ruolo di gran cerimoniere, mentre Nico si occupa di tenere alto il lato psichedelico con il suo basso distorto e pieno di effetti. Le già citate “Skeletons party” e “Rock and roll voodoo style”, invece, alleggeriscono leggermente il tiro risultando più ‘solari’, per quanto possano esserle in un genere come il doom, ma non temete, i nostri non hanno deciso di diventare i nuovi Beach Boys, e ci pensano brani come l’opener “Gruesome woe”, molto Candlemassiana, o la lunghissima, lenta, cupa e ossessiva “Vanitas (the leper queen)” (con tanto di didgeridoo), a riportare tutto in carreggiata.
A dare manforte ai nostri c’ha pensato poi Stefano Morabito, che nei suoi 16th Cellar Studios ha registrato l’album, e che ha reso il sound dei Sesta pesante e cupo al punto giusto, anche se personalmente ho preferito la produzione del precedente demo, in cui le chitarre davvero erano devastanti in quanto a potenza, ma questa resta una mia personalissima opinione.
Insomma, per essere un debut album il livello è assolutamente più che alto, e se analizziamo con attenzione la parabola compositiva del quartetto negli ultimi due/tre anni, come già dicevo prima, sono sicuro che con il secondo lavoro le cose miglioreranno ulteriormente. Sesta Marconi, un nome su cui puntare…
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