La magia si è esaurita. Tra
Blackmore e
Gillan volano nuovamente gli stracci anche se, stando alle parole di
Jon Lord, è proprio l'amico
Roger Glover a lamentarsi maggiormente delle performance tenute dal cantante in ambito live.
I quattro superstiti si riuniscono in un bar del Vermont per tirare le somme sulle sorti del gruppo, ma principalmente per fare il punto della situazione riguardo alla persona cui sarebbe toccato l'onore/onere di occupare il posto dietro al microfono vacante. I candidati sono tanti: si parla di
Jimi Jamison, di
Jimmy Barnes, di
Terry Brock, ma alla fine lo scorbutico chitarrista preferisce andare sull'usato sicuro.
Viene convocato infatti
Joe Lynn Turner, già frontman dei
Rainbow tra fine anno 70 ("
Difficult To Cure") e primi 80 ("
Straight Between The Eyes", "
Bent Out Of Shape"), e le prove di "benvenuto" vanno talmente bene che il gruppo esce dai rehearsal con un brano già bello che pronto ("
The Cut Runs Deep").
Joe è perfetto per la direzione in cui Ritchie vorrebbe incanalare i Deep Purple del 1990, ovvero verso un suono meno imponente ed allo stesso tempo più commerciale/radiofonico.
Certo, le perplessità regnano sovrane, molti giornalisti con la puzza sotto il naso si chiedono perché la rinnovata configurazione del gruppo non opti per il banner Rainbow, ma ci pensa lo stesso Turner, come al solito poco diplomatico, a rispedire le accuse al mittente. "
Perché non ci chiamiamo Rainbow? Perché noi non siamo i Rainbow! Siamo i Deep Purple, che cercano di progredire, ed allo stesso tempo tentano di mettere una pezza alla brutta figura fatta dal precedente album".
Definire "
House Of Blue Light" in questo modo irriverente ed irrispettoso è una boutade che lascia un po' il tempo che trova; si tratta ovviamente delle solite sparate promozionali, eppure il coinvolgimento di Joe nella band è totale, anche a livello di composizione. La produzione è affidata al solito Roger Glover, che aveva già modellato il suono dei Rainbow quando si trovò a dividere il palco a fianco del duo Turner/Blackmore, ma questa scelta, peraltro ovvia, non fa che attizzare ancora di più il fuoco delle polemiche riguardo al nome che il gruppo avrebbe dovuto adottare. "Profondo Porpora" o "Arcobaleno"?
Sinceramente sono discussioni alquanto puerili e poco interessanti, quando si ha tra le mani un'opera del calibro di "
Slaves And Masters", tuttavia è con i fatti che il quintetto dimostra la legittimità artistica della propria scelta. Certo, il singolo "
King Of Dreams" non si discosta molto dai
Bad Company dell'era
Brian Howe, ma canzoni come la già citata "The Cut Runs Deep", la bluesy "
Fire In The Basement", oppure la simil-"
Perfect Strangers" (in salsa melodic rock) a titolo "
Truth Hurts" rientrano senza problemi nei canoni stilistici dello storico monicker.
La sterzata verso lidi più fruibili è certamente netta, l'ammiccamento al mercato americano dell'AOR fa pendere l'ago della bilancia in determinate situazioni, come il secondo singolo "
Love Conquers All", oppure la synth oriented "
Too Much Ain't Not Enough", tuttavia l'atmosfera arcano-misteriosa di "
Fortuneteller" (tra "
Soldier Of Fortune" e "
Gypsy") e quella drammatica di "
Wicked Ways" (andamento rock'n'metal alla "
Under The Gun") non si discostano poi molto da quanto esibito nei due precedenti 33 giri.
E chiudiamo pure un occhio sul fatto che "
Breakfast In Bed" ricicli spudoratamente il riff "sudista" di "
On The Prowl" dei
Molly Hatchet ben oltre i limiti del plagio (mi stupisce che non li abbiano mai citati in giudizio a tal riguardo), anche perché poi le melodie sviluppano armonie indipendenti.
Sparare a zero su "Slaves And Masters" sembra però essere diventato uno sport condiviso, tanto da far sbottare il solito Turner nel corso di un'intervista a Kerrang!: "
Se Rolling Stone odia il disco, allora siamo nel giusto. Se Mick Box pensa che 'Love Conquers All' sia una specie di scarto dei Foreigner, significa che abbiamo fatto centro! Non vi piace il disco? Andate a comprarvi gli album di Gillan e correte a vederlo dal vivo. Ma non rompete i coglioni a noi, che siamo più hard rock che mai. Nel gruppo ci sono tre ex Rainbow e due ex Whitesnake: quindi cosa diavolo volete?".
Se è vero il motto per cui "o si ama o si odia, l'importante è che se ne parli", allora bisogna proprio dire che "Slaves And Masters" non lascia nell'indifferenza proprio nessuno.
I fans si dividono, con una larga preponderanza degli intransigenti Mark 2, che magari si lamentano pure per il ritorno in scaletta della monumentale "
Burn", ma che oggi accettano di buon grado il pesce fuori d'acqua
Steve Morse ed un
Gillan versione crooner. Parlando da un punto di vista soggettivo, dichiarato anche se non richiesto, "Slaves And Masters" resta uno dei dischi dei Deep Purple che ho ascoltato di più in assoluto. Forse per il suo non velato intento di tenere i piedi in due scarpe che, personalmente, reputo entrambe confortevoli? Può essere.