Dopo aver praticamente rischiato (o tentato) il suicidio a forza di ingurgitare alcool e droghe di vario tipo e genere, in seguito alla sua cacciata dai
Black Sabbath, la carriera solista di
Ozzy Osbourne sembra immediatamente nascere sotto una buona stella.
"
Blizzard Of Ozz" e "
Diary Of A Madman" sono due capolavori assoluti, ed il tour a supporto di quest'ultimo diventa un affare letteralmente gigantesco.
Poi accade quello che tutti sappiamo, ovvero la tragica scomparsa in un incidente di elicottero di
Randy Rhoads, il giovane chitarrista che ebbe l'incontestabile merito di far rinascere la fenice dalle proprie stesse ceneri. Il rapporto con
Jake E Lee, sostituto del compianto eroe della sei corde, non è esattamente la stessa cosa. "
Bark At The Moon" risulta un disco ascrivibile in tutto e per tutto all'iconico cantante inglese, ma il successivo "
The Ultimate Sin", pur restando ancora oggi una prova di spessore, sposta troppo l'ago della bilancia verso il metal americano da classifica (
Ratt su tutti). Ozzy non è affatto contento di quel disco, anche se lo si scoprirà soltanto col senno di poi ("
I hate this crap" dice in un documentario riguardando un videoclip tratto dal 33 giri).
La pubblicazione del doppio live "
Randy Rhoads Tribute" è il modo per omaggiare un grande musicista che non c'è più, ma anche per dare il benservito a colui che lo ha sostituito, ovvero il succitato Jake E Lee, considerato il principale colpevole della deriva artistica di "The Ultimate Sin". Non dico che Osbourne si ritrovi nella stessa situazione del dopo Black Sabbath, assolutamente no, certo che torna nella non invidiabile situazione di dover rifondare quell’alchimia cantante/chitarrista che è il fondamento principale di qualsiasi rock/metal band si rispetti.
La scelta ricade su un giovane e sconosciuto diciottenne, al secolo
Jeffrey Phillip Wielandt, nome d'arte
Zakk Wylde. Anche il bassista
Phil Soussan viene cortesemente messo in disparte, ed i credits sul nuovo disco, intitolato "
No Rest For The Wicked", sono consegnati alla "vecchia conoscenza"
Bob Daisley; per il tour di supporto, gli oneri dello strumento toccheranno invece al guru dei Black Sabbath
Geezer Butler, ma questa è già un'altra storia.
La produzione dell'album, ad opera di
Roy Thomas Baker, non si discosta poi molto da quella di "The Ultimate Sin", tuttavia sono le otto canzoni che lo compongono a suonare profondamente Ozzy-ane. Dal serratissimo rifferama dell'opener "
Miracle Man", un'ironica presa per i fondelli nei confronti dei predicatori televisivi americani (canzone scelta tra l'altro come primo singolo e videoclip), all'agile heavy metal furente e senza fronzoli di "
Devil's Daughter", per passare alla perfetta "
Crazy Babies", dominata dal mirabile sincronismo voce/chitarra tra Osbourne e Wylde. “
Breaking All The Rules” chiude il lato A, con un mood sostanzialmente vicino al class metal di “The Ultimate Sin”, prima che “
Bloodbath In Paradise”, le cui lyrics sono ispirate alla strage della setta Manson presso Cielo Drive, irrompa col suo andamento maligno e luciferino.
Sono proprio i testi “oscuri” il maggior punto di distacco rispetto al lavoro precedente, invero molto più solare e spensierato, eccezion fatta per l’epica “
Killer Of Giants” che faceva storia a sé. “
Fire In The Sky” è un monumentale mid-tempo, magnificamente esaltato dagli arrangiamenti di tastiere di
John Sinclair, che apre squarci bellissimi sui quali si incastona come un prezioso diamante la maniacale voce di Ozzy: non vorrei “bestemmiare”, ma in questo brano sembra quasi che il “Madman” insegua certe situazioni stilistiche molto vicine a quelle del “concorrente”
Ronnie James Dio. Il riff cattivo e bastardo di “
Tattooed Dancer” è un invito a nozze per l’attitudine del cantante inglese, mentre la conclusiva “
Demon Alcohol” è un’autoanalisi del protagonista nei riguardi della sua dipendenza etilica, con un refrain letteralmente “esagerato” per incisività ed immediatezza.
Zakk se la cava egregiamente in tutto l’album, anche se da un noto giornalista dell’epoca venne definito come “apprendista stregone”, almeno rispetto ai suoi due predecessori: mi pare invece che la carriera di Wylde, sia con Ozzy che con i suoi
Black Label Society, parli ampiamente da sola.