Ricordo ancora molto bene un loro concerto al Circolo degli Artisti a Roma, nel Novembre del 2003, pochi mesi prima del loro split, davanti a 37 (!!!) paganti. Eppure c’è stato un momento in cui, verso la fine degli anni ’90, i
Crown erano uno dei gruppi di punta della scena estrema europea. Poi qualcosa si è rotto, con l’avvicendamento tra Tomas “Tompa” Lindberg e Johan Lindstrand dietro il microfono che non ha fatto altro che confondere ulteriormente i fans, e con i nostri che non sono riusciti più a bissare il successo di un album come “Deathrace king”, caposaldo di quel death/thrash che tanto imperversava all’epoca e che i Crown stessi hanno contribuito a plasmare e rendere popolare, e quindi la fine è stata quasi inevitabile. Qualche anno di silenzio, poi il come back della band intera, tranne Lindstrand, sotto il nome di Doberman (!!!), e finalmente il ritorno al monicher che li ha resi famosi, con l’ingresso del vocalist Jonas Stalhammar. Solo pochi mesi, ed ecco che “Doomsday king” (un caso l’assonanza col loro masterpiece “Deathrace king”?) è sugli scaffali di dischi di tutto il mondo. Evidentemente lo stop forzato ha giovato alla band, che in questo periodo ha ritrovato coesione e ispirazione, mettendo su una manciata di brani che sono davvero una mazzata in piena faccia. Fin dalla title track, posta in apertura, che dopo un inizio quasi epico spazza via tutto grazie ad una serie di riff assassini e alla voce di Jonas, per nulla intimorito dal confronto con i suoi illustri predecessori, anzi, assolutamente a proprio agio con le sonorità dell’album, particolarmente dure e pesanti, forse anche più che in passato. Immutato, quindi, lo stile, i fans possono stare tranquilli, in quanto il famoso death/thrash di cui parlavamo prima è vivo e vegeto, e come in passato non mancano neanche quelle spruzzatine di punk marcio e di rock’n’roll, che vanno ad impreziosire il sound della band. Se proprio c’è una differenza, possiamo riscontrarla, come accennato, in un generale indurimento delle composizioni, e nella voce di Jonas, più sgraziata e bastarda che mai. E se la citazione al riff di “Raining blood” presente del secondo brano “Angel of death 1839” non credo sia casuale, per il resto il disco suona fresco e pur strizzando l’occhio al passato non dà mai la sensazione netta di deja vu. Riff affilati, batteria trita ossa, urla sguaiate, c’è tutto quello che dobbiamo aspettarci da un album del genere, che vede in “From the ashes I shall return”, in “Soul slasher” e nella titletrack i suoi punti di forza. Insomma, “Doomsday king” non è certamente un disco destinato a restare negli annali del metal, ma calcolando che segna il ritorno della band dopo quasi sei anni, direi che lo fa in maniera impeccabile e assolutamente incisiva. Un gradito ritorno quindi, ora non resta altro che catapultarsi ad un loro show e tritarsi le ossa nel pogo, sperando, questa volta, che ci siano più delle famose 37 persone di cui sopra…
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