Copertina 7

Info

Anno di uscita:2010
Durata:38 min.
Etichetta:Witching Hour Productions

Tracklist

  1. FALSE GOD
  2. APPEAR
  3. SPIRITS
  4. ESSENCE
  5. WORM
  6. TO UNDERSTAND DEATH
  7. PRIVATE RELIGION
  8. NOTHING MORE
  9. WHEN YOU REST 6 FEET UNDER
  10. THEY'LL BURY
  11. MOURNFUL SONG
  12. JUST LIKE LIFE
  13. THERE'S NO USE LAMENTING

Line up

  • Rob Bandit: vocals
  • Python: guitar
  • Guzz: guitar
  • Greg: bass
  • Jaras: drums

Voto medio utenti

Direi che raramente m’è capitata una recensione più semplice di questa dei polacchi Magnus. Già avendo tra le mani il promo è stato facile intuire di cosa si trattasse, vista l’iconografia spiccatamente eighties, metal e satanica della copertina. Pelle, spuntoni, borchie, candelabri, la faccia bruttissima del singer Rob Bandit in primo piano, tutto rimanda ai Venom, quindi ad un certo modo di intendere il metal tipico della prima metà degli anni ’80. E direi che non è un caso, visto che i Magnus si sono formati appunto nel 1987, quando l’estremismo nel metal aveva ancora dei confini e delle caratteristiche ben definite. Dopo lo split avvenuto dieci anni dopo, i nostri decidono di tornare a mietere vittime, ed ecco quindi questo “Acceptance of death”, loro primo album dopo la reunion. Dalle premesse fatte mi sembra scontato dirvi che la proposta della band è un grezzissimo thrash metal infarcito pesantemente di influenze death metal, più che black, come è in uso fare oggi da parecchie band che si rifanno a quegli anni. Quindi, se volete farvi un’idea immediata del sound dei nostri, prendete i primissimi Sepultura, i Sarcofago e, manco a farlo apposta un’altra band brasiliana, i Vulcano, per capire dove vogliono andare a parare i Magnus. Grezzume allo stato puro, brani violentissimi e brevissimi (non superano quasi mai i tre minuti), misti ad altri lenti e marcissimi, con una produzione volutamente old school, per 38 minuti di assalto sonoro senza compromessi. E pensare che l’inizio dell’album mi aveva fatto rizzare i capelli per quanto è brutto: un urlo sgraziato di Rob e come sottofondo la band che produce un tale macello sonoro da sfiorare la cacofonia. Per fortuna s’è trattato solo di un episodio di pochi secondi (a parte la reprise in “They’ll bury”, in cui i nostri giocano un po’ a fare i Naked City, sinceramente senza riuscirci, visto che per fare quella roba devi avere davvero i controcoglioni, come dicono ad Oxford), visto che poi le song sono strutturate decisamente meglio, per lo più su up-tempo sorretti dagli ottimi tupa-tupa di Jaras. Beh, cos’altro aggiungere, penso sia tutto chiaro. Quaranta minuti per nostalgici di un certo modo di intendere l’estremismo sonoro. Per i modernisti e i masturbatori di strumenti il consiglio è di guardare altrove. Per chi è rimasto ancorato agli anni ’80, qui potete trovare pane per i vostri denti, 13 canzoni che vi faranno smuovere la testa in un furioso headbanging, continuo, senza pause, senza respiro.
Recensione a cura di Roberto Alfieri

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