Arrivano dalla città più “motoristica” d’Italia (almeno per adesso!), sfoggiano un monicker pressoché
geniale e hanno già un Ep (“Stone cold cruel” del 2008) autoprodotto all’attivo.
“Too rude to be cool” è il titolo del loro primo tentativo sulla lunga distanza di farsi notare in mezzo al ricco plotone di propugnatori dell’hard / sleaze rock con il
cuore negli eighties e il
cervello nel terzo millennio, e di attirare l’interesse di appassionati e addetti ai lavori.
L’operazione pianificata dagli street-
ers torinesi
Backstage Heroes si può considerare sostanzialmente riuscita, poiché le loro radici italiche dimostrano di aver assorbito un rigoglioso gusto espressivo “internazionale”, saldamente ancorato nei terreni “storici” di stampo yankee, ma germogliato tramite un’adeguata sintesi di
ormoni più recenti, compresi quelli di derivazione scandinava.
Una sorta d’interpolazione “ragionata” tra Motley Crue, L.A. Guns e Cinderella (ascoltate per referenze immediate il vibrante afflato blues di “I joke(he)r”) da un lato e Velvet Revolver, Hinder, Underride, (ma a volte affiora anche un tenue sentore di Pearl Jam!), Backyard Babies e The Hellacopters dall’altro, come detto degna di considerazione benché riprodotta ancora in una forma “embrionale”, dove tante sono le cose apprezzabili e qualcuna appare ancora perfezionabile.
Cominciamo dagli aspetti positivi: linee melodiche abbastanza incisive e buone doti attitudinali rendono il prodotto godibile e coinvolgente, con i momenti più riusciti da rintracciare nelle note guizzanti di “Anybody”, “Reborn” e “C'mon”, mentre “Let's rock and roll” e “Scent of a woman” si candidano fin dal primo ascolto come plausibili
best in class della situazione, capaci di condensare le migliori capacità artistiche del quartetto.
Per quanto concerne gli “spunti di miglioramento” è invece necessario riferire di architetture canore, nonostante il bel timbro
sabbiato e intraprendente di Lory Cruel, non sempre impeccabili (ad esempio nella comunque ridondante “So far from home”) e una certa debolezza riscontabile nell’ambito della versatilità compositiva (“Die for me” ci prova a dare una piccola scossa in questo senso, ma anche qui manca un pizzico di brillantezza) e del carisma, che sembrano “frenare”, per ora, il decollo verticale della creatura sabauda e il suo congedo definitivo dalle folle scalcianti e convulse dell’underground.
Detroit rimarrà per sempre la “rock city” per eccellenza, ma anche Torino sa fare la sua
(s)porca figura (nel settore, oltre alle nostri promettenti rockers “
troppo ruvidi per essere fighi”, mi piace in questa sede ricordare i notevoli Hollywood Killerz …) e questo, per fortuna, indipendentemente dalle strategie e dalle dichiarazioni vagamente “intimidatorie” di insigni managers italo-canadesi.
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