Arrivati al quindicesimo anno di una lunga e strepitosa carriera che li ha consacrati quale gruppo di riferimento del Progressive Metal degli anni novanta, i Dream Theater riescono ancora a stupire con ogni loro uscita, cambiando le carte in tavola ad ogni nuovo disco. Alla luce del controverso “Six Degrees of Inner Turbulence”, sarebbe stato comprensibile un ritorno alle sonorità del fortunato “Scenes From a Memory”, invece il gruppo statunitense si dimostra coerente nella propria evoluzione stilistica: se già “SDOIT” aveva segnato una decisa sterzata verso sonorità più pesanti e aggressive, fortemente influenzate dal Thrash e dalle atmosfere dei Tool, questo “Train of Thought” prosegue il discorso musicale aperto dal suo predecessore, restituendoci un gruppo in ottima salute, ancora in grado di scrivere canzoni di rara bellezza e incredibile intensità. “Train of Thought” è composto da appena sette pezzi, e nonostante quasi tutti superino i dieci minuti di durata, nessuno di questi risulta noioso o prolisso.
Il disco si apre con la accattivante “As I Am”, brano ruffiano e piuttosto semplice per gli standard compositivi dei Dream Theater, posto volutamente in posizione iniziale per disorientare l'ascoltatore: il resto del disco è decisamente meno diretto e orecchiabile. Sin dalle prime note colpisce la produzione pulita e potente, opera dell’ormai collaudato duo Portnoy – Petrucci, forse la migliore che un disco dei Dream Theater abbia mai avuto. Segue “This Dying Soul”, seconda parte di “The Glass Prison” di “SDOIT”, incentrata sui problemi di Mike Portnoy con l'alcool. Dopo un inizio arrembante, molto Thrashy, John Petrucci si rende protagonista di uno splendido assolo, mentre le tastiere di Jordan Rudess riportano alla mente le atmosfere oscure del celebre “Awake”. La prestazione di LaBrie è convincente: abbandonate le acrobazie dei primi dischi, James sceglie linee vocali più controllate e dolci, facendo ricorso in alcuni casi a vocals filtrate e parti rappate. Non storcano il naso i puristi, i Dream Theater del duemila sono anche questo: un gruppo che miscela numerose influenze e sonorità incredibilmente distanti tra di loro, con una classe unica. La seconda parte della canzone lascia libero sfogo al duo Petrucci – Rudess, con un Portnoy in forma smagliante.
In “Endless Sacrifice” si respirano atmosfere più rilassate, che crescono nel refrain, per sbocciare in un chorus potente e diretto. La successiva parte strumentale è semplicemente divina, con un Rudess in veste istrionica che si prende la libertà di inserire un intermezzo stile cartoon. “Honor Thy Father” è l'episodio più articolato e complesso di “Train of Thought”, con evidenti richiami ai Tool e a "Awake", pur mantenendo una grande melodicità, soprattutto nel chorus. “Vacant” è una breve ballad (sfiora i tre minuti di durata), tanto intensa quanto fugace, con un violino ad arricchire il già nutrito sound dei Dream Theater.
E' difficile trovare aggettivi per “Stream of Consciousness”, ennesima perla strumentale e ulteriore testimonianza della maestria tecnica dei Dream Theater. “In The Name of God” conclude in grande stile questo disco, riprendendo alcune sonorità orientali, con un ritmo sostenuto ma mai aggressivo. Si tratta forse del pezzo più “alla Dream Theater” dell'album, che mette in evidenza l'eccellente performance di John Myung al basso, che non si limita a seguire le linee della chitarra di Petrucci, ma lascia libero sfogo alla sua fantasia.
“Train of Thought” è un disco coraggioso, che non mancherà di dividere i fan e di suscitare numerose discussioni sulla sua effettiva natura “progressive”. Ma è davvero necessario essere sperimentali a tutti i costi per scrivere un buon disco? Credo di no, ed è quello che “Train of Thought” è: un grande album, in grado di emozionare e coinvolgere come solo i Dream Theater sanno fare.