Dopo l’album di debutto del 2005 intitolato “Out of place”, i campani
Chaos Conspiracy devono aver pensato che le parole qualche volta sono superflue. Ne siamo circondati, del resto, parole troppo spesso inutili, inconsistenti, retoriche, nei solchi dei dischi e ancor di
più in una società dove tutti sono esperti di tutto e non perdono l’occasione di ostentare la loro
indispensabile opinione (ne hanno fatto addirittura un “mestiere” …) su temi di cui in realtà non sanno poi molto.
Beh, forse, dietro alla scelta di affidarsi ad un’espressione artistica esclusivamente strumentale ci sono altre (magari più
pragmatiche) motivazioni, ma mi piace pensare che questo “Indie rock makes me sick”, con le sue traiettorie imprevedibili, le ritmiche distorte e potenti e le chitarre che s’inseguono fino all’orlo di abissi vertiginosi, per poi aprirsi a raffinate e magnetiche soluzioni armoniche, raffiguri una sorta di alternativa comunicativa all’eccesso di discorsi vuoti e inconcludenti che ci circondano.
Un’impressione puramente soggettiva nei confronti di una proposta comunque sicuramente visionaria, intensa, mutevole nelle esuberanti suggestioni sonore (hardcore, jazz, metal, stoner, funky, psichedelia, noise, wave, scorie dub, addirittura fascinazioni ska/surf … ascoltare “Surf and destroy”,
spericolata eppure brillante ibridazione tra gli Helmet e un Dick Dale sotto anfetamina!) e tuttavia talmente equilibrata, coerente e persuasiva da non perdere mai di vista l’obiettivo primario di ogni prodotto discografico: la sua “comprensione”.
Per quanto intellettuale, creativo, rumoroso, sghembo e policromo possa essere il contenuto del disco, esso non scade mai nell’autoindulgenza e rispetta sostanzialmente il dogma di una (evoluta) “forma canzone”, offrendosi al pubblico appassionato come un’esperienza sensoriale densa, frastagliata, poco omologata e screziata da guizzi di autentica genialità.
Fornire al lettore indicazioni comparative (come anticipato, come in un forsennato zapping ispirativo, si va dai Jesus Lizard agli Iceburn, dagli Zu ai Primus, da Miles Davis ai QOTSA, dai Don Caballero ai Lodestar), è abbastanza arduo e ancora più difficile risulta parlare di singoli episodi, ed è per questo che mi limiterò a due citazioni, in qualche maniera rappresentative del “mondo” evocato dai Chaos Conspiracy: la title-track, esempio di come un vibrante
groove è in grado di rendere istantanee intraprendenti geometrie soniche, e “Noam is my copilot” in cui, con il fattivo contributo della tromba
free-jazz di Luca Aquino, si svela l’attitudine maggiormente “sperimentale” e “trasversale” della formazione di Benevento.
“Indie rock makes me sick” piace perché non fa rimpiangere la mancanza della voce (ma, da grande estimatore della
delicata arte della “fonazione modulata”, sarei in ogni caso curioso di saggiare le attuali peculiarità del gruppo coadiuvate da un vocalist all’altezza!) e perché i suoi autori fanno parte di quella generazione di musicisti creativi e assolutamente “democratici”, per cui nessun genere è meglio di un altro, in una visione non gerarchica di una musica che poi, aspetto non trascurabile, sa anche, attraverso perspicaci mediazioni, non essere prolissa, presuntuosa e narcisistica.
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