1978: esce il disco omonimo dei Centaurus, un gruppo che anticipa in qualche modo la cosiddetta
New Wave Of American Metal, e che, come accade proprio a tanti precursori nel loro settore di competenza, non vede gratificato questo ruolo con un adeguato riscontro.
Un vero peccato, perché il disco è davvero godibile, illuminando di vigore
heavy rock lo spirito ipnotico di certi Led Zeppelin, in un clima in cui il chitarrista Nick Paine dà libero sfogo alla sua devozione per il suo esplicito (con tanto di dedica specifica) idolo Page attraverso una vibrante ispirazione tecnica (che non disdegna
addirittura l’ausilio dell’archetto da violino!) e spirituale, offrendo una prestazione di grande livello.
Il cantante della band si chiama Louis Merlino e pur senza essere Robert Plant, grazie ad una vocalità piena di pathos e generosa nelle variegate doti interpretative, contribuisce attivamente al clima straniante di un lavoro passato inspiegabilmente inosservato, determinando, di fatto, la disgregazione della formazione americana (a questo proposito mi piace ricordare che il bassista Nick Costello finirà in quei Toronto capaci di consegnare ai posteri il bellissimo “Head on”, un piccolo classico AOR da riscoprire!).
1990: un
istante prima che il grunge monopolizzi il mercato, c’è ancora spazio per l’hard melodico di qualità ed i
Beggars & Thieves dimostrano, tramite il loro albo auto-intitolato, tutta l’impressionante forza espressiva posseduta da questi lidi sonori. Merlino, sempre più
mago della fonazione modulata, è nuovamente mattatore della situazione, nella circostanza coadiuvato da un altro valentissimo alchimista delle sei corde, Ronnie Mancuso, con il quale condivide anche l’onere della stesura di materiale di enorme pregio, stavolta apprezzato in maniera convincente e soddisfacente, seppur abbastanza
effimera, tanto da non trovare concrete conferme nel successivo “Look what you create”, registrato nel ’91 e “congelato” (sarà pubblicato solo nel 1997 su MTM, che licenzierà anche il successivo “The grey album”, del 1999) poiché ritenuto troppo “classico” per i tempi.
2011: in un panorama musicale che esprime notevole benevolenza nei confronti dei suoni “tradizionali” e dei ritorni più o meno eccellenti, è tempo di una vera “seconda possibilità” anche per i Beggars & Thieves.
“We are the brokenhearted” è, a dispetto di quello che si potrebbe percepire da un incipit in forma di
flashback come quello che ho scelto per cercare di raccontarvelo, tutt’altro che un disco
nostalgico.
Il legame con la tradizione dell’
hard rock, quella che passa anche attraverso il calore del
blues e l’elegia del
folk, è ovviamente solido e tangibile, ma la freschezza e l’intensità delle nuove composizioni è talmente urgente da convincere facilmente anche i meno
conservatori tra gli appassionati del genere, arrivando a
rischiare di persuadere persino i
rockers più
modaioli se solo vorranno concedere una possibilità a questi eccellenti musicisti magari non esattamente
visibili come tanti dei loro beniamini.
La padronanza interpretativa di Louie è diventata pressoché assoluta e conferisce una notevole profondità a brani incredibilmente maturi dal punto di vista compositivo, frutto di una palpitante e intima ricerca melodica e di un viscerale spessore emotivo, in cui il sostegno di Mancuso appare ancora una volta il segno distintivo di una personalità artistica definita e vitale.
Non c’è un pezzo che possa subire l’
onta dell’omessa citazione, dieci grandi canzoni rock in grado di mettere d’accordo gli ammiratori dei Riverdogs e quelli degli Alter Bridge (ok, forse è una piccola
provocazione, ma verificare gli effetti “commerciali” e le ambizioni “radiofoniche” di brani affascinanti come “Oil & water”, "Beautiful losers” o “Never gonna see you again”, potendo contare sull’attenzione riservata al gruppo di Myles Kennedy oppure, per fare un altro paio di esempi piuttosto eloquenti, ai Black Stone Cherry e prima di loro agli Audioslave, rappresenterebbe un
esperimento piuttosto interessante nel campo delle
strategie per un efficace business musicale, così come sarebbe bello sottoporre “Wash away“ al giudizio esteso dei fans di The Black Crowes e Jet!), per un prodotto veramente appagante negli effetti sensoriali, da consigliare senza remore a chi nella musica cerca autenticità e tensione emozionale.
Ladri e Mendicanti, tornano ad essere, dunque, protagonisti della scena contemporanea, e per fortuna non si tratta, per il momento, delle conseguenze di quella crisi economica internazionale esplosa in tutta la sua drammatica concretezza dopo mesi di maldestri tentativi di occultamento dietro una rappresentazione quantomeno
ottimistica della realtà.