Con i
Floorshow di “Son of a tape!” vi troverete catapultati direttamente nei primi anni ottanta, quando un manipolo di personaggi carismatici, conturbanti e tenebrosi diede origine alla migliore stagione del
dark e della
new-wave, movimenti che assorbendo la vitalità del
punk, la trasfiguravano attraverso un’estetica maggiormente raffinata, capace di estremizzare i concetti del “vecchio”
rock n’ roll, enfatizzandone gli aspetti più contraddittori e decadenti.
Nella brillante prova dalla formazione nostrana, rivivono, infatti, le immagini distinte di icone del calibro di Sisters Of Mercy (dal cui repertorio i nostri mutuano il loro
monicker), Bauhaus, Christian Death, Joy Division, Damned (catturati nella loro fase “oscura”), primi Cure e i suoni di quella musica fosca e malinconica, debitrice dei temi del Romanticismo, immersa in un crogiolo di sepolcrale, brutale e tuttavia sempre elegante suggestione emotiva, e fortunatamente l’intera operazione è concepita con notevole vocazione e adeguato istinto creativo, elementi fondamentali per non scadere nell’auto-indulgenza e in una forma d’impeto evocativo fine a se stesso.
I Floorshow sono, dunque, credibili nel loro ruolo di “
figli delle tenebre” (anche se un po’ banale, è una definizione che mi piace di più di “
figli di una cassetta!”, enigmaticamente suggerita dal titolo del disco, scelto verosimilmente per indicare una fiera identificazione “storica” … a pensarci bene potrebbe trattarsi, magari, di una delle tante registrazioni “pirata” di Mr. Eldritch e dei suoi
pards, per un periodo autentici principi del mercato dei
bootlegs!), nel programma del loro Cd troverete lirismo trascendente, imponenza sonica, lugubri presagi, solennità ipnotica, la spigliatezza del
pop e bagliori di una forma perversa e paranoica di
rockabilly, nonché tutta la forza espressiva e l’intima essenza del
rock oscuro, realizzate compiutamente in gioiellini crepuscolari quali “Total recall” e “Fortress” (“roba” davvero preziosa, intrisa di
pathos e tragica teatralità), ma riscontrabili anche nell’adrenalinica “Playback / Meet the monsters”, nella torbida frenesia di “The agony of a ballet” e poi ancora nelle suggestive “Shestaya chast mira” e “Paranoia paradise”, così vicine ai primi
vagiti della
new-wave, costantemente in bilico tra rinnovamento e tradizione, rancore e melodia, tra
glam e
punk (nella prima si percepiscono echi Bowie-
iani mentre nella seconda affiora la tipica irruenza di un Iggy Pop).
Superfluo riproporre la necessità, in una valutazione artistica complessiva dell’opera, di un incremento di personalità, a cui va aggiunta, però, la considerazione di ritenere i Floorshow dotati del talento necessario per sviluppare ulteriormente gli insegnamenti dei maestri … e poi se le classifiche sono assiduamente frequentate da gente come Editors, Interpol, White Lies, Franz Ferdinand e The Cinematics, perché non auspicare uno “spazietto” anche per questi bravi
darkers capitolini?