Il qui presente disco non è un vero è proprio full-lenght propriamente inteso, restando “
Invisible Mountain” l’unico parto di
Jenks Miller, l’uomo dietro il progetto
Horseback. Esso raccoglie i due precedenti ep, “
Impale Golden Horn” e “
Forbidden Planet”, per un totale, spropositato, di ben 85 minuti di musica.
Musica.
E’ difficile definire musica le onde sonore che scaturiscono dai solchi dei due cd di cui si compone “
The Gorgon Tongue”, spesso ci troviamo di fronte a composizioni sonore o, se volete, per i più profani, a rumore. Ma anche il rumore ha una sua estetica, e anche il rumore può farsi sinfonia, magnifica sinfonia, bellissima sinfonia.
Le due anime di questo platter sono complementari, mentre i primi quattro pezzi, relativi a “
Impale Golden Horn” sono più aperti, più melodici, più positivi – ammesso che questi aggettivi possano avere un senso per la musica di
Horseback –, trascinando l’ascoltatore in un trip psichedelico – che invita all’oblio, con riverberi di lontane melanconie che, come una marea che monta, conducono ad un dolce naufragio –, le restati tracce di “
Forbidden Planet” ci portano in territori più oscuri e disturbanti, dove il rumore di fondo si ispessisce inesorabilmente col trascorrere dei minuti, corroso dal gracchiare acido di
Miller, in un lento e costante decadimento radioattivo.
Al di là dei singoli mood di ciascuno dei due dischi, ciò che resta è un’overdose di rumore sintetico, frutto di macchine che concedono spazio solo alle chitarre, a loro volta violentate in fase di post-produzione. Il connubio di drone, dark ambient, harsh noise, industrial, e black metal è di difficile digestione. Sfido chiunque a sorbirsi quasi un’ora e mezza di
Horseback tutta d’un fiato.
Pare opportuno sottolineare che i canoni con i quali si giudica codesto tipo di musica sono assolutamente diversi rispetto a quelli di un disco di ordinario metal/rock.
Qui le sensazioni e le suggestioni personali dell’ascoltatore fanno la differenza, e se per alcuni la estrema e rutilante ripetitività dei pezzi, i quali mandano in loop fino allo sfinimento i medesimi accordi, è uno dei motivi per fuggire via lontano da questa musica, per altri, invece, essa rappresenta un motivo di avvicinamento, essendo funzionale a indurre in uno stato di disagio psichico, prodromico al trip. Un trip dentro se stessi o lontano, persi in immaginarie galassie, oltre i confini dell’universo conosciuto.
Personalmente amo questo tipo di musica, pardon, amo il rumore. E amo i trip. Nell’impossibilità di valutar numericamente un disco simile, vi invito a farlo vostro, a metterlo nel lettore, spegnere le luci, chiudere gli occhi, e lasciarsi trascinare dalle suggestioni della musica. Non garantisco il ritorno.