Il metalcore è musica costruita, artefatta, non spontanea, senza cuore. Sono questi i pensieri che fluivano nella mia mente mentre ascoltava l’ottava fatica sulla lunga distanza dei tedeschi
Caliban.
Premetto, a scanso di equivoci, che nutro forti pregiudizi verso l’universo metalcore, almeno nei confronti di ciò che oggi si usa definire metalcore e che, sempre a scanso di equivoci, è perfettamente incarnato dai
Caliban.
Nello sforzo di unire pattern violenti e ritmiche quadrate, afferenti al thrash metal, e melodia, spesso le bands finiscono per risultare artefatte, perdendo di vista le due componenti e non riuscendo a valarizzarne nessuna, nel tentativo, ossessivo oserei dire, di far convivere insieme forzatamente due anime così lontane. Sovente non c’è amalgama e si finisce per dar vita a un ibrido con un nuovo codice genetico sterile.
Non volendo, nel dare una panoramica generale di ciò che penso del metalcore, ho recensito il presente “
I Am Nemesis”, il quale, a dispetto delle parole della band, che giura di aver appesantito ancora di più il suono donandogli un groove tecnico in pieno
Meshuggah style, nulla aggiunge a quanto fatto in passato dalla band, compreso il precedente “
Say Hello To Tragedy”.
Siamo di fronte al solito assalto sonoro, iperprodotto, pianificato in ogni singola nota, con voce in perenne overdrive, ritmiche che sembrano fatte di cemento e che del cemento hanno la stessa artificiosità, sovente interrotto da intermezzi melodici assolutamente forzati e forzosi.
Spararsi circa 45 minuti di questa musica è veramente arduo, anche perché ben presto irrompe la noia e l’incapacità della band di variare i propri schemi, di essere “spontanea”, la rende tremendamente pallosa.
Secondo la mia modesta opinione i
Caliban invece di sedersi a tavolino per decidere la struttura della canzone, dovrebbe riunirsi in sala prove e cominciare a suonare con spontaneità.
La musica estrema è tale se lascia spazio all’urgenza della rabbia e non cerca di comprimerla in strutture artefatte. La riprova sta nel fatto che la band, quando decide di isolare le proprie due anime, tira fuori pezzi di assoluto spessore, e parlo della terremotante “
Deadly Dream” e della emozionale “
This Oath”.
È chiaro che la band sia tecnicamente valida e che dal vivo, asciugando il suono, senza le sovrastrutture da studio di registrazione, possa regalare un discreto massacro sonoro, ma il giudizio su questo disco è assolutamente deficitario. Solo per i fan duri e puri della band, gli altri dopo un ascolto non si ricorderanno nemmeno più perché l’avevano comprato.
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