1995. Sono al mio ottavo anno di
van-halen-dipendenza, una malattia dalla quale è stato difficile uscire, credetemi. Immaginatevi la scena. Io, fan idolatrante di Eddie Van Halen, che torno a casa con il cd “Balance” fra le mani, impaziente di scartare il cellophane della custodia e mettere lo stereo a tutto volume per poi scatenarmi (di nascosto) in sessioni forsennate di air-guitar e scissor-kick jumps. E scopro dalle foto della retrocopertina che l’Olandese Volante si è tagliato i capelli e si è fatto crescere il pizzo. Come me. All’epoca avevo quasi 25 anni, ma la mia reazione di incontenibile gioia, per questa casualissima somiglianza, fu più in linea con quella di un adolescente, tanto fu scomposta e fuori luogo.
“Balance” è un disco che suscita in me sentimenti contrastanti. A mio modesto parere, sancisce la fine dei
Van Halen come gruppo realmente in attività: tutto ciò che verrà dopo e un’altra storia, un'altra band, di cui non ho condiviso, con gran sofferenza, moltissime scelte. Per scrivere di questo album al meglio ci sarebbero tanti aspetti da tenere presenti, legati solo marginalmente a questioni musicali: il primo problema è la morte di Ed Leffler, il manager del gruppo legatissimo a Sammy Hagar, che ha fatto da contrappeso allo strapotere dei VH Bros e che ha finora permesso al Red Rocker di avere più potere decisionale all’interno del gruppo. Le due fazioni non hanno ancora smaltito la discussione legata all’opportunità di pubblicare un “Best of” e l’arrivo del nuovo manager Ray Danniels non migliorerà le cose (che anzi precipiteranno di là a poco); Eddie e Sammy litigano su tutto e non si risparmieranno critiche reciproche abbastanza feroci dopo il tour. Il secondo problema è la scarsa disponibilità di Michael Anthony (che vuole trascorrere più tempo con la propria famiglia) a sottoporsi a sessioni di prove e di registrazione estenuanti, fortemente volute da Eddie, in gran vena creativa dopo la disintossicazione dall’abuso di alcool. Anche Sammy, magari più per ripicca, evita tutte le ore di studio richieste e si affaccia al “5150” un po’ quando gli pare. Terzo, ma questa è una mia personalissima opinione, il lavoro non impeccabile del produttore. Bruce Fairbairn fatica a dare unità al disco e potrebbe aiutare la band a selezionare meglio i brani; nei primi anni ’90 è spesso impegnato con grandi produzioni (soprattutto con gli Aerosmith) e mi sembra troppo attento a questioni legate alla confezione del disco, piuttosto che alla purezza della musica in esso contenuta. Qualche effetto sonoro in meno e qualche attenzione in più sulle canzoni sarebbero stati più opportuni e graditi.
A volte un disco nato in un contesto di conflitti e tensioni si carica misteriosamente di un’energia positiva e ne viene fuori un capolavoro. Altre volte il disastro è inevitabile. Rispetto a queste categorie, “Balance” sta nel mezzo: è un disco bellissimo, ma un po’ disomogeneo e con qualche traccia debole o superflua.
Proprio in apertura, ecco il primo “effetto speciale”, ossia la registrazione del coro dei Monaci della Gyuro Tantric University, sulla cui recitazione mistica irrompe la musica dei Van Hagar. Una gran bella botta “Seventh Seal”, un brano in cui c’è tutto quello che amo di questo gruppo e che avrei voluto per gli anni e per i dischi a seguire. Batteria implacabile, basso continuo e presente, voce esplosiva e la chitarra di Eddie che si esibisce in accordi scoppiettanti, ritmiche telluriche e pennellate di chitarra solista. Brano davvero eccezionale, fra gli “up” indiscussi di questo album, caratterizzato purtroppo, da alti e bassi qualitativi.
Si scende subito di qualche gradino con “Can't Stop Lovin' You”, ballatona con un ritornello che è davvero poca cosa. Di buono c’è il protagonismo assoluto della chitarra (gran bell’assolo), al posto delle prevedibili tastiere patinate, ma il risultato è una scarsa sufficienza.
Ancora su (di corsa e di tanto) si torna con la successiva “Don't Tell Me (What Love Can Do)”, che si apre con una bellissima chitarra, suonata con una plettrata “di taglio” che conferisce al suono saturo e rotondo una sgranatura molto particolare. Tutto il lavoro di ritmica in questo brano è davvero riuscito, con accordi mezzi strappati che denotano una scioltezza di mano che hanno davvero in pochi. Assolo da brivido, notturno e d’atmosfera, col solo basso a supporto, senza sovraincisioni e trucchetti. Eddie smanetta alla grandissima anche nel finale, tutto in crescendo.
“Amsterdam”, è un altro pezzo – bomba, energico ed articolato, ma per quanto sia spettacolare la base strumentale, il brano si perde in un testo abbastanza sciocco (criticatissimo da Eddie in tante interviste) in cui Sammy decanta la bontà del fumo prodotto nei Paesi Bassi.
Nell’“up and down” di gradimento parte il trittico della discesa libera. “Big Fat Money” è un rock’n’roll banale, senza alcuna melodia (Hagar sembra abbaiarci qualcosa sopra, giusto per timbrare il cartellino), che si regge sul mestiere e si fa notare solo per un bel solo “old style” (che Eddie esegue su una vecchia Gibson) e per l’effetto sonoro, inutilissimo, del suono di una moneta che rotola a terra nel finale. Giù ancora con “Strung Out”, un minuto e mezzo di vecchie registrazioni di un pianoforte straziato dal lancio di vari oggetti sulle corde. Possibile che del famoso archivio dei Van Halen questa fosse la cosa più interessante da recuperare? Ci vorrebbe un sussulto per risollevare le sorti, ma arriva la ballad (con tanto di pianoforte a coda introduttivo) “Not Enough”, che oltre a non distinguersi per particolare bellezza, mi irrita per il solo di Eddie, eseguito con un suono effettato già sentito in altri dischi prodotti da Fairbairn. Eddie Van Halen è un leader, segna la strada che gli altri poi percorrono, non lo puoi imbellettare con la moda del momento, lo trovo assolutamente sbagliato.
E infatti, quando questo chitarrista fa quello che vuole, seguendo il proprio istinto, ecco che ti arriva “Aftershock”, una scossa sismica di puro, autentico hard rock, di qualità sopraffina, con armonici ottavati ad aprire le danze, seguite da un riff serratissimo. Ottime le voci e bellissimo il finale, impreziosito da chitarra solista a ruota libera e da uno stop improvviso, che riporta in modo efficace il brano al giro iniziale, fino a sfumare.
“Doin' Time” e “Baluchitherium” sono due strumentali in cui i fratelli Van Halen si ritagliano prepotentemente un momento di gloria personale. Il primo è un assolo di batteria e percussioni, un po’ pretenzioso, che ho sempre faticato a inquadrare in questa collocazione “studio” piuttosto che in una più consona sede “live” (forse solo John Bonham può permettersi su disco una “Moby Dick” e una “Bonzo’s Montreaux” tutte per sé). Il secondo è un gradevole esercizio di stile per chitarra elettrica, destinato, forse, ad un disco solista di Eddie, mai andato in porto.
“Take Me Back (Deja Vu)”, introdotta da altro effetto sonoro, nasce da un vecchio riff scritto molti anni prima, in cui si può apprezzare una bella acustica, ma sinceramente niente di indimenticabile.
Grandissimo colpo di coda è il finale del disco affidato a “Feelin'”. Il brano si sviluppa partendo con un arpeggio, in cui la chitarra è in lieve saturazione, con una potenza che si trattiene a stento, che difatti si libera al minuto 1:40 in una grande esplosione. Il brano è un altro 10 e lode, in cui sentimento ed energia si dosano e poi deflagrano lasciandoci senza fiato. La folle corsa dell’assolo di chitarra è uno di quei momenti in cui ci si deve fermare, ascoltare, imparare e riflettere. Qualcosa di unico. Il pezzo termina con un accenno di orchestrazione in stile “Kashmir”, che chiude il disco in modo degnissimo.
Nella gestione confusa di manager e casa discografica c’è di tutto: “Baluchitherium” è assente nella versione su vinile, vengono pubblicate due edizioni della copertina (quella dei gemelli siamesi viene ritenuta troppo forte in alcuni Paesi) e un pezzo, “Crossing Over”, è presente solo in edizione giapponese. Proprio in questo brano Eddie suona tutti gli strumenti, lasciando a Sammy la parte vocale principale e al fratello Alex solo qualche sovraincisione di batteria. Pezzaccio oscuro, originale e profondo, che avrebbe ben figurato sulla versione ufficiale del disco al posto di qualche filler.
Dovrei mettere un voto, ma lo sapete, se si parla dei Van Halen smetto di ragionare e straparla solo il cuore. Nonostante l’incostanza e qualche pasticcio, adoro “Balance” e gli assegno un 9 in virtù dei picchi dei brani migliori e per il rispetto di una grande band, che a suo tempo piazzò per la quarta volta di seguito un disco direttamente al primo posto alla sua pubblicazione. Cos’altro aggiungere che non si sia già abbondantemente capito da questo sproloquio? Amo questo gruppo e tendo spesso a parlarne come di una donna che mi ha ferito. Non ho mai apprezzato la distanza incolmabile che la band mette fra sé ed i fans, i silenzi e le spiegazioni mai chiare, le eterne beghe; tutta roba che aggiunta ai demoni personali di Eddie ha decretato uno spreco di tempo e un sacco di occasioni buttate al vento. Io me li voglio ricordare per sempre così, congelati al decimo sigillo della carriera, anno 1995. Grandissimi.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno