Prendete i Discharge, i Melvins e i Metallica di “Kill ‘em all” e avrete un’idea del sound dei
The Fucking Wrath. Questo almeno stando alle note biografiche che accompagnano “Valley of the serpent’s soul”, secondo disco in studio per i californiani, e devo dire che una volta tanto le righe di presentazione corrispondono alla realtà. La proposta dei nostri, infatti, ha una solida base stoner/sludge, ma è imbastardita da sfuriate thrash e da un approccio dannatamente rozzo e punk, senza dimenticare un certo gusto blues, soprattutto negli assoli. E la cosa che m’ha colpito di più è proprio l’assoluta naturalezza con la quale i nostri gestiscono questi cambiamenti di umore, facendo risultare il tutto fluido e affatto forzato. Chitarroni grossi e ciotti, basso distorto, batteria pestata a sangue, questi gli elementi più stoner, mentre Craig Kasamis alterna la sua voce, a volte più pulita, a volte più incazzata. Un plauso va senz’altro al duo Kasamis/Woodward, capace di partorire riff ipnotici tanto quanto quelli più violenti, anche se devo dire che senza il basso di Nick Minasian il sound dei nostri perderebbe almeno il 50% del proprio groove e della propria impronta. Non inventa nulla di nuovo “Valley of the serpent’s soul”, ma riesce in ogni caso a vincere, grazie a sonorità accattivanti che rendono l’ascolto un vero e proprio trip nel deserto. Un disco sincero, suonato col cuore e con l’anima dal quartetto di Montalvo, che se ne frega delle mode attuali e tira fuori otto brani assolutamente lontani dal mainstream, seguendo solo il proprio istinto e lasciandosi andare, come in una sorta di lunga jam session controllata… Immancabile qua e là l’eco dei Black Sabbath, più in particolare quelli del periodo “Master of reality”, riscontrabile in alcuni riff di chiaro stampo Iommi, ma sempre evitando il plagio più totale. Si parla per lo più di sapori, di richiami, mai di vere e proprie scopiazzature, in quanto lo stile dei nostri, alla fine dell’ascolto, risulta tutto sommato abbastanza personale. E c’è tempo anche per un episodio più riflessivo, oserei dire quasi mistico, “Grandelusion”, due minuti lisergici che ci traghettano verso la conclusione dell’album, affidata a “Goddes of pain”, forse messa non a caso in chiusura, visto che si tratta, probabilmente, dell’episodio migliore del lotto, sei minuti che sono la summa di quanto proposto dal gruppo nei precedenti brani. Parti pachidermiche, accelerazioni violente, riff vorticosi, basso pulsante, batteria cangiante… ed è la fine… ma state certi che premerete immediatamente di nuovo il tasto play… “Valley of the serpent’s soul” vi conquisterà ascolto dopo ascolto…
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