Dopo aver deliziato le platee del post punk, del gothic rock e della new wave, prima con "
Dreamtime", ma soprattutto con "
Love", i
The Cult sconvolgono letteralmente il mondo musicale. Via i vestiti svolazzanti di "
Rain", entrano in scena giubbotti di cuoio nero e cartuccere, al diavolo i colori psichedelici di "
Nirvana", adesso regna il caos, il nero che più nero non si può. "
Electric" suona come un autentico shock; poche volte si era assistito, almeno fino ad allora, ad un cambio di direzione stilistica così radicale e repentino, specie se ad effettuarlo è un gruppo con un seguito di tutto rispetto.
Eppure
Ian Astbury e
Billy Duffy, assistiti dal bassista
Jamie Stewart e dal drummer
Les Warner, sembrano dediti al puro hard rock da sempre, come se per loro fosse la cosa più facile e naturale di questo mondo. Prodotto dal guru
Rick Rubin, reduce dal bagno di sangue con gli
Slayer di "
Reign In Blood", il 33 giri viene presentato in una elegante copertina gatefold, con immagini che definire "guerrafondaie" pare pure poco.
Sono probabilmente necessarie lunghe sedute di analisi per far riprendere dal trauma i vecchi fans del gruppo, convinti di avere individuato nei The Cult una sorta di protesi del movimento flower power.
Come poter digerire un simile voltafaccia, di sostanza e di immagine?
Pressoché impossibile.
Inaugurato dal riff tetragono di "
Wild Flower", da una ritmica pulsante e da linee vocali al vetriolo, "Electric" parla il "vangelo" degli
AC/DC e dei
Led Zeppelin, azzerando ogni riferimento verso il proprio passato, ed aggiornando lo storico suono hard rock degli anni '70 al pragmatismo ed all'estetica della decade in corso.
Ne sono testimoni l'incendiaria "
Lil' Devil", ma anche il primo singolo "
Love Removal Machine", con quel giro di chitarra che sembra copiato pari pari da "
You Shook Me All Night Long" degli AC/DC.
Billy Duffy non è certo un fenomeno di tecnicismi con la sei corde, così come Ian Astbury non può assolutamente competere con il range vocale dei più importanti esponenti del genere, tuttavia l'alchimia sprigionata dal duo è qualcosa di magico ed ancestrale. Il batterista Les Warner picchia come un ossesso in "
Bad Fun", eppure trova anche il groove giusto per accompagnare clamorosi trip Zeppeliniani a titolo "
Peace Dog" ed "
Aphrodisiac Jacket".
La fluidità di songwriting non intacca mai la bocca di fuoco di una produzione mostruosa, che sputa fuori cattiveria a profusione dagli speaker dello stereo, vedi la granitica "
King Contrary Man", oppure la martellante "
Electric Ocean", ulteriore traccia molto AC/DC oriented. La stessa cover scelta per l'occasione, ovvero "
Born To Be Wild" degli
Steppenwolf, risente della vitaminica "cura Rick Rubin", una scelta certamente avallata con soddisfazione convinta da parte dei due "capi" della situazione. "Electric" non fatica a conquistare le classifiche di mezzo mondo, l'hard rock ed il metal imperversano in lungo ed in largo nelle classifiche, ed il pubblico del settore, solitamente sempre attento alla qualità, non può certo rimanere impassibile ad un simile lotto di canzoni.
È così che i The Cult, da esponenti della new wave, si ritrovano a primeggiare in un mondo che, fino a pochi anni prima, li vedeva come fumo negli occhi. Il clamore suscitato dal disco è infatti talmente rimbombante da suscitare l'attenzione dei maggiori produttori dedicati all'hair metal da classifica dell'epoca. Primo su tutti
Bob Rock, al quale verrà affidato il non facile compito di dare voce alla replica di questa autentica bomba ad orologeria. Il successivo lavoro "
Sonic Temple" aggiusterà il tiro verso un approccio più mainstream e meno selvaggio, le tastiere inizieranno a fare timido capolino, le canzoni verranno "levigate" e smussate rispetto alla furia primordiale incanalata in "Electric".
Tuttavia, se i The Cult guadagneranno credenziali sempre più referenziate nel mondo hard’n’heavy, non bisogna dimenticare che il “peccato originale” parte da questi solchi.