“Few Against Many” è un titolo quanto mai azzeccato, anche se naturalmente i
Firewind non si aspettavano lo fosse per un particolare motivo: i “few” infatti saranno quelli che apprezzeranno il nuovo disco, giudicandolo l’ennesimo capolavoro della band ellenica, degno successore di "Days of Defiance"; i “many” invece saranno i detrattori (me compreso), che giudicano il disco un netto quanto inaspettato passo indietro, una topica da cui rialzarsi al più presto. E basta essere un minimo obiettivi per rendersi conto che si tratta di un fatto incontrovertibile, checché se ne dica.
E il perché è subito detto: i
Firewind di “Few Against Many” suonano spompati, dalla chitarra dell’ormai prezzemolino (troppo?)
Gus G. alla voce di
Apollo Papathanasio, i veri muri portanti della creatura greca. Gus gioca esageratamente a fare lo Zakk Wylde, riuscendoci solo a tratti, Apollo sembra invece il fratello con la raucedine di quello ascoltato negli anni passati, fatta esclusione per un paio di episodi felici di cui parleremo in seguito.
Il combo greco fino ad oggi era riuscito a inanellare un album col botto dopo l’altro, riuscendo a superare con apparente facilità i numerosi cambi di line-up che hanno costellato la loro ormai decennale carriera. La ricetta tra l’altro è stata sempre semplice ma quanto mai d’effetto: power metal farcito di heavy classico e, in misura minore, di hard rock, più di tradizione americana che europea, con i capisaldi Iced Earth a fare da paragone più azzeccato.
Il problema è che proprio quando sembrava raggiunta una certa stabilità in fatto di componenti, qualcosa dev’essere andato storto a livello di songwriting e di scelte stilistiche: per tutta la durata del disco infatti si ha la netta sensazione che Gus sia svogliato e privo di idee, attingendo un po’ qua e un po’ la dai suoi vari progetti (Mystic Prophecy su tutti) per riempire i suoi Firewind, cosa che ahimè non ha dato i risultati sperati, risultando solo un’accozzaglia di cliché e di cose già sentite, perdendosi tra generi diversi, in un limbo dei sopracitati power metal, heavy e hard rock. Babele sonora.
E non è nemmeno corretto dire che uno degli stili scelti è quello che va poi ad inficiare sul lavoro globale, perché paradossalmente le uniche 3 canzoni di livello medio-alto del disco appartengono a 3 categorie differenti: “
Glorious” è infatti la traccia forse più orientata all’hard rock dell’intero album, ruffiana al punto giusto e dal tiro micidiale, con la voce grattata di Apollo che s’incastra perfettamente tra le melodie intessute da Gus e dall’ottimo
Joahn Nunez (Nightrage) alla batteria, tanto semplici quanto d’effetto; la successiva “
Edge of a Dream” è la classica ballatona strappalacrime, che vede la graditissima partecipazione degli archi degli
Apocalyptica, a donare un tocco di classicità e malinconia, ben coadiuvati dalle tastiere di
Bob Katsionis, davvero in grande spolvero, oltre a un Apollo che tira fuori dal cilindro una voce suadente e decisamente atmosferica; a chiudere il trittico felice troviamo “
Destiny”, che fin dalle note iniziali trasporta l’ascoltatore verso quelle lande di speed-power che contribuirono ad inizio carriera alla fortuna dei Firewind, con un ritornello frizzante e arioso che si lascia piacevolissimamente canticchiare col sorriso sulle labbra.
Il punto è che tutto inizia e finisce qui, traccia 6,7 e 8.
Il resto è una noia mortale, 7 canzoni tutte terribilmente simili tra loro, senza piglio, senza voglia, senza anima. Suonate perfettamente, interpretate discretamente ma assolutamente prive di quella personalità e originalità che un gruppo ormai rodato come i
Firewind dovrebbero spandere come coriandoli a carnevale. E va bene che a carnevale ogni scherzo vale, ma in una gara di cliché lo scherzo è bello quando dura poco, quindi vediamo di rialzarci presto e dare un bel colpo di spugna a questo evitabilissimo disco.
“
Few Against Many” arriva alla sufficienza solo perché il talento dei
Firewind è innegabile, la produzione è pressoché perfetta e il colpo di coda di quelle 3 canzoni gli permettono di fare il salto della barricata. Ne sarebbe bastata una in meno per la clamorosa insufficienza, anche se per quanto fatto vedere dagli ellenici nella loro carriera, anche una sufficienza stiracchiata come questa suona un po’ come una bocciatura, un po’ come uno studentello dotatissimo che preferisce godersi la vita piuttosto che mettere a frutto i propri talenti. E’ bravo, al 6 ci arriva comunque, ma il senso di insoddisfazione è tangibile.
Quoth the Raven, Nevermore..