Dunque, vediamo un po’ cosa abbiamo oggi … un gruppo dal
monicker “ornitologico”, capitanato da un musicista con trascorsi “estremi”, che per la sua contingente espressione artistica si abbevera all’inesauribile fonte del
classic rock … no, non si tratta dei favolosi Firebird, ma dei
Gypsyhawk e sebbene Eric Harris e i suoi Skeletonwitch siano meno celebri e pioneristici di Bill Steer, Carcass e Napalm Death, il percorso delle due
bands evidenzia comunque talune analogie, frutto di un morbo “tradizionale” che evidentemente gode di una prepotente capacità di contagio.
Beh, ad essere onesti, il mitico Steer, la sua scelta di una seconda “vita artistica” (attualmente in
stand-by,
sob …) l’ha fatta in tempi leggermente meno “sospetti” di questo, particolarmente benevolo nei confronti dei suoni
vintage, ed ecco che il primo aspetto oggetto di verifica nella disamina di “Revelry & resilience” (secondo lavoro dei californiani … debutto nel 2010 con “Patience and perseverance”) sarà proprio la “sincerità” dell’intera operazione.
Non trattandosi di un dato nemmeno lontanamente “oggettivo”, mi rendo conto che qualcuno potrebbe considerare “bizzarro” utilizzare tale parametro come un primario elemento discriminate, ma per quanto mi riguarda si tratta di una condizione (sarebbe meglio chiamarla “sensazione”) imprescindibile in un panorama musicale sempre più competente e livellato sotto il profilo tecnico-esecutivo.
Ebbene, anche dopo parecchi ascolti, l’impressione che una certa “premeditazione” manieristica alimenti le mosse di questo preparato quartetto statunitense (nel
curriculum del quale sono apprezzabili partecipazioni in Huntress, Holy Grail, Overloaded, Suns Beneath e White Wizzard) aleggia
insistentemente nei miei gangli sensoriali, e tuttavia francamente non mi sento di affidare alla suddetta labile percezione gli strali di un biasimo perentorio per un albo nel complesso piuttosto ben fatto e attanagliante, nella sua evidente devozione “storica”.
In questo modo, se vi considerate estimatori di Thin Lizzy (soprattutto), AC/DC, Nazareth, Wishbone Ash, Motorhead e, in parte, del versante più
hard-rock della NWOBHM (More, qualcosa dei Budgie … lo stesso che affiora nelle ultime prove degli stessi Firebird, tra l’altro …), non posso che consigliare attenzione e complicità anche per questo pregevole dischetto, pilotato dalla voce scabra e calorosa di Harris (una sorta di Phil Lynott che ha preso qualche lezione di canto da Lemmy) nonché dal
rifferama super - amplificato e dagli avvincenti duelli chitarristici Kluiber / Packer, degni della grande tradizione del genere.
La nobile dipendenza
irlandese è obiettivamente piuttosto pressante (una faccenda che li accomuna, pur senza eguagliarli in ispirazione, ad esempio, ai brillanti canadesi Pride Tiger, per chi scrive uno degli esempi più riusciti di “rock classico” dei tempi moderni …) e ciononostante il
songwriting dei nostri non appare mai caricaturale, mentre imponenti dosi di energia e grinta completano il quadro di coinvolgimento emotivo.
Difficile, infatti, rimanere impassibili di fronte a “The fields”, “Frostwyrm”, ”Night songs from the desert” (davvero intrigante, tra fuliggini
heavy-blues e vibranti accelerazioni …), “The red wedding”, “Silver queen” (un altro momento particolarmente riuscito, con un avvincente tocco evocativo), alla frenetica “State lines” e a “Rock and roll, hoochie koo” (una rilettura della premiata ditta Winter / Derringer come potrebbe realizzarla Gene Simmons …), tutta “roba” che non faticherà a far “salire la temperatura” (e non c’entra la canicola estiva …), indurvi al movimento “inconsulto” (“
it’s music for girls to shake their asses and dudes to bang their heads”, in questa frase è racchiuso il pensiero programmatico di Harris & C.) e convincervi del valore del vostro investimento.
Un
artwork suggestivo e molto “in stile” contribuirà ad attirare il popolo del “retro” rock, che sono sicuro apprezzerà la musica dei Gypsyhawk, fatta con i muscoli, la testa e il cuore, con quest’ultimo magari appena un po’ troppo vicino al taschino del portafoglio.