Non c’è ombra di dubbio nel dire che la tecnologia ha completamente rivoluzionato le nostre modalità di fruizione della musica. Ricordo ancora le serate (e le nottate) passate beatamente steso su di una specie di sdraio casalinga davanti al mio vetusto impianto stereo, cuffie in testa e 33 giri (o cassetta) in ascolto. Ai miei tempi i dischi si ascoltavano quasi sempre per intero perché saltare le canzoni era una rottura ma soprattutto perché ne potevo comprare 1 o 2 al massimo e li dovevo consumare per bene e in religiosa adorazione. Poi sono arrivati i cd che permettevano agevoli balzi da una traccia all’altra, anche se essendo supporti fisici il saltello selvaggio era limitato sempre e solo all’album nel lettore.
Oggi siamo in piena
Skip Generation. Possiamo letteralmente portare con noi la nostra intera collezione e ascoltare tutto in modo puramente casuale, zompettando allegramente tra giga e giga di musica e skippando come dei forsennati quando la canzone appena partita non è di nostro gradimento. Ammetto candidamente di non ascoltare spesso interi album dall’inizio alla fine come in gioventù, un po’ per mancanza di tempo un po’ perché tutto sommato mi piace poter avere a portata di mano delle enormi playlist multipiano.
Ebbene, questo
“The Book” di
Graham Bonnet è stato capace di riportarmi indietro nel tempo, inchiodandomi per più di un’ora e mezza davanti al pc per poterlo godere tutto d’un fiato, rigorosamente in cuffia. Questo vecchietto qui, a quasi 69 anni, sembra avere la stessa passione di quando era nel fiore degli anni e ci regala un disco capace di relegare a mere comparsate i tantissimi gruppi contemporanei e non che invece hanno perso (o non hanno mai avuto) il cosiddetto fuoco dentro. Ovviamente la sua enorme carriera gioca un ruolo fondamentale, ma come ben sappiamo non sempre fuori dalle navi madre i singoli elementi riescono a ottenere risultati degni di nota. La permanenza in mostri sacri come
Rainbow, MSG e
Alcatraz più altre svariate collaborazioni (Vai e Impellitteri) non potevano non pesare nel songwriting di
“The Book” e difatti possiamo trovare richiami da tutto il passato di
Bonnet che però è riuscito a dare un’anima alla sua creatura e non a rubare frammenti da altre per poi creare un inutile collage.
Per fare questo si è avvalso dell’opera di un certo
Mark Zonder alla batteria (
Warlord e
Fates Warning), di
Jimmy Waldo alle tastiere (
Alcatraz), del chitarrista
Conrado Pesinato e della bassista
Beth-Ami Heavenstone. Inutile dire che siamo di fronte a un disco che prende spunto dall’hard’n’heavy degli anni 80, quasi sempre ispiratissimo e con pochissimi cali di tensione anche dopo svariati ascolti. La voce è ancora splendida, magari ha perso un po’ in potenza e pulizia ma ne ha guadagnato tanto in espressività, dando un tocco ancora più magico alle canzoni. E il bello è che alla fine del disco possiamo andare ancora avanti, perché c’è una graditissima sorpresa.
“The Book” è un doppio album in cui il secondo disco è un insieme di sedici cover delle passate band di
Bonnet in cui possiamo trovare svariati capolavori, da
“Since You’ve Been Gone” a
“Hiroshima Mon Amour” tanto per citarne un paio. Tutte sono semplicemente reinterpretate senza stravolgere nulla dell’originale semplicemente perché non hanno nulla da toccare. Un regalo enorme, considerando il già alto valore degli undici inediti.
Dopo i
Pretty Maids e
Kee Marcello un altro signore del rock torna alla grande a calcare le scene e lo fa in maniera impeccabile come soltanto i grandi sanno fare, conquistando da subito il palcoscenico e lasciando agli altri solo le briciole. Segno che chi sa fare musica non dimentica mai.
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