A tre anni dal loro debut album Beneath the Veiled Embrace, risultato un disco fin troppo anonimo e scarno, i
Pythia tornano con
The Serpent’s Curse con il quale dimostrano di aver dato un bel colpo di reni e la loro proposta è ritrovata adesso in una veste molto interessante.
Un piccolo cambiamento di line-up che porta adesso Mark Harrington al basso e grosse rivoluzioni del prodotto in pressoché tutti i reparti consente loro di poter aspirare e salire sull’olimpo del female-fronted metal con un lavoro di tutto rispetto e, per quel che è possibile visto il settore, comunque abbastanza personale. Ma non è l’originalità il problema del metal di oggi, lo sappiamo tutti che per trovarci davanti qualcosa di veramente innovativo dovremmo aspettare qualche allineamento di errori di band-etichetta-critica-pubblico; è più una questione di valore, soprattutto muovendoci in una delle categorie più in crisi forse perché non passata accuratamente al setaccio in fase di selezioni.
I londinesi Pythia stavolta hanno puntato in alto, rischiando non poco e cercando di creare un compromesso tra un progetto che vede una concorrenza spietata con una scena ormai oligarchica e una proposta quasi generalista, in tre casi su quattro ne vien fuori un macello di suoni scomposti… questo è il quarto caso!
Andiamo con ordine. Cominciamo dalla voce, al microfono troviamo Emily Alice Ovenden conosciuta in patria tra le file delle
Mediæval Bæbes, formazione tutta al femminile che propone canti medievali realizzati a cappella o adagiati su basi classiche; una voce da soprano lirico che però non si limita soltanto a uscite operistiche, puntando spesso e volentieri su tonalità non troppo alte che donano all’album un volto cangiante alleggerendo l’ascolto con aperture calde sottolineate anzi dalle colorature delle quali è capace .
Ad accoglierla un power non eccessivamente pomposo e soprattutto non dato quasi mai in pasto alle tastiere, tenute a bada anche da una produzione realizzata con l’intento -centrato- di bilanciare per bene le parti; anche gli elementi sinfonici non dilagano se non in alcune eccezioni come ad esempio
“The Circle” (nel player in basso) primo estratto dell’album, molto fresco e facilmente assimilabile e qui si capisce il perché della scelta. Chitarre non troppo elaborate anch’esse variabili che si muovono da semplici strutture ritmiche a brevi assolo semplici ma ben eseguiti, concedendosi anche vampate simil-thrash realizzate in collaborazione con Marc Dyos dietro le pelli e il nuovo arrivato Harrington al basso.
L’album si presenta con una buona attitudine teatrale accompagnata da un volto gothic che fa capolino tra sonorità classiche e per quel che è possibile anche epic. In apertura
“Cry of Our Nation” dall’impostazione quasi anthemica seguito da
“Betray My Heart” il brano più operistico della tracklist insieme al finale
“Our Forgotten Land”, tra gli highlights da segnalare
“Kissing the Knife” e
“Dark Star” ma il livello è comunque costante.
Come detto in precedenza a parte la Ovenden, timoniere della band, non possiamo parlare di eccellenze, tuttavia The Serpent’s Curse suona veramente bene.
L’artwork magari può ingannare rispetto alla proposta ma senza dubbio anch'esso è venuto bene.
Consigliatissimo agli amanti del genere che vogliono arricchire la loro collezione con qualcosa di non scontato e soprattutto ben realizzato. A tutti gli altri ovviamente un po' meno...
Si guadagnano, per chi scrive, un posto nella top 3 dei
Female-Fronted-Power-Symphonic-Gothic-Opera-Epic(a)-Manca qualcosa?-Metal Awards 2012!
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