Il nuovo anno comincia con un grande evento: il tredicesimo album da studio dei
Voivod, una delle metal band più amate e rispettate dell’intero panorama mondiale. Formazione dalla storia tragica e travagliata come poche altre, ma capace di attirarsi le simpatie anche di coloro che non sono propriamente dei fans. Questione di coerenza musicale e forza caratteriale, merce rara in tempi di ipocrisia sfacciata e piagnistei infantili davanti ad ogni minimo ostacolo.
Nel 2009 era uscito “Infini”, che molti avevano accolto come il loro canto del cigno, visto che l’album seguiva la prematura scomparsa di Denis “Piggy” D’Amour, chitarrista e mente creativa del gruppo fin dai tempi dell’esordio. Ma per l’ennesima volta i Voivod hanno smentito le cassandre, presentandosi in gran forma dal vivo (anche sui palchi italiani) grazie all’inatteso ritorno dell’originario bassista “Blacky” Theriault ed al nuovo axeman Daniel “Chewy” Mongrain, già con i tech-deathsters Martyr. Poi la pubblicazione di un dvd registrato in Giappone e di uno storico live risalente ai tempi di “War and pain” (“Warriors of ice live”, 2011), hanno significato la conferma dell’intenzione del quartetto americano di proseguire la sua pluridecennale carriera.
Infatti questo “Target earth” esce in occasione del trentennale della formazione, traguardo quantomai prestigioso. Ma se il precedente lavoro sfruttava ancora il lascito del povero Piggy, qual è il risultato ottenuto dai compagni orfani del chitarrista?
Pur essendo un fan della prima ora, devo riconoscere che il disco presenta luci ed ombre piuttosto evidenti. Già la title-track, piazzata in apertura, è emblematica per quanto riguarda l’essenza dell’opera. A prima vista è il classico episodio voivodiano, con la ritmica incalzante e la melodia sfuggente. Il rifferama mostra quella struttura spigolosa ed un po’ psichedelica diventata il band-trademark, così come risulta inconfondibile la voce di “Snake” Belanger e la sua enfasi scenografica. Però all’orecchio allenato non può sfuggire l’insistita serie di richiami al passato che costituisce l’intera struttura del disco, una sorta di collage formato da idee, spunti, sonorità ed echi, pescati qua e là dai capitoli discografici più significativi ed incollati insieme a formare una sorta di riassunto del Voivod style. Troppo facile riconoscere nella prima canzone gli scampoli di Killing Technology o i brandelli di Nothingface, così come è quasi imbarazzante la somiglianza di “Empathy for the enemy” con le atmosfere amare e visionarie di Angel Rat, la superba creatura Pinkfloyd-iana del 1991.
Certo, da un lato era prevedibile che gli americani si muovessero all’interno del territorio che conoscono meglio, da loro stessi scoperto ed esplorato a fondo; così come è assai difficile capire dove finisce la logica conferma delle coordinate stilistiche di un gruppo ed inizia il riciclo del proprio materiale e la autocitazione. Resta il fatto che alcune trame sono eccessivamente frastagliate e qualche riff sembra proprio di averlo già sentito, uguale uguale. Inoltre il produttore Pierre Remilliard ha voluto sottolineare la modernità dei suoni fanta-tecnologici del quartetto, però il basso rombante costantemente in primo piano pare più un tributo al ritorno del figliol prodigo (“Blacky” Theriault) che una reale necessità strumentale.
Il “nuovo” chitarrista “Chewy” Mongrian è bravo, nessun dubbio. Ma ho la sensazione che sia costretto a forzare la sua vera indole per non privare gli appassionati del particolare tocco del predecessore, cosa che rischia di farlo diventare un ottimo e magari carismatico imitatore altrui ma di limitarne l’apporto di freschezza e originalità.
Comunque parliamo pur sempre di musicisti per i quali è stata sovente usata la parola “genialità”, ed il presente “Target earth” a distanza di tantissimo tempo vede la presenza dei tre quarti della line-up originale. Ecco perché alla fine i momenti di qualità non mancano. Ad esempio l’irruente “Kluskap O’korn”, sostenuta dal groove trascinante e dall’inconsueto controcanto nel ritornello, o quella “Kaleidos” che ci era stata presentata dal vivo durante le date più recenti nel nostro paese. E se “Mechanical mind” è brano nel solco della tradizione ma appare sin troppo complesso e ondivago, con “Resistance” torniamo a tuffarci in quella nebbiosa espressività legata a pezzi come “Panorama” o “The prow”.
Manca invece un titolo immediato, di quelli che ci scatenano la voglia di lasciar uscire il metal-kid che è in ognuno di noi, indipendentemente dai gusti e dall’età. Uno come “Volcano” (da Infini) per intenderci. Pazienza.
Tirando le somme, per un gruppo dato per spacciato fino a pochi mesi fa, può bastare. Conferme ce ne sono, su tutte la prestazione di “Snake” e “Away”, oggi più che mai motori della storica formazione. Novità, meno. Quello del bassista è un ritorno alla base, mentre “Chewy” deve ancora lasciare l’impronta personale. E di sicuro, la modifica del logo e l’artwork aggiornato all’epoca corrente, non rappresentano cambiamenti di rilievo.
La cosa più logica è che si tratti di un lavoro di transizione, la testimonianza della volontà di protrarre la carriera anche se ciò potrebbe richiedere qualche cambiamento rispetto al passato. Ed anche se, ascolto dopo ascolto, “Target earth” cresce nella mia considerazione, rimane difficile prevedere se reggerà sulla lunga distanza così come è accaduto ai dischi dei Voivod più rappresentativi.
Permettetemi però, a livello personale, di gioire per la ricomparsa di questa band seminale, al di là di qualsiasi considerazione sul loro nuovo album.