I novegesi
Altaar sono nati come one-man project di Andreas Tylden, all’indomani dello scioglimento dei JR Ewing. Poi è avvenuto l’incontro con il polistrumentista Sten Ole Toft, con la conseguente trasformazione in gruppo vero e proprio, completato dall’ingresso di altri tre veterani della scena alt-doom-metal nazionale. Il debutto discografico omonimo data 2011, ma è con questa seconda opera che gli scandinavi puntano ad uscire dagli angusti confini di Oslo e dintorni.
Due lunghe suite (20 e 15 minuti circa) di pura sperimentazione, partendo comunque da riconoscibili radici hypno-doom, heavy metal, noise, che affiorano a turno tra i flutti sonori che compongono i brani. Emerge anche una chiara impronta psichedelica, risalente al pionierismo di Pink Floyd e soci, così come vibrazioni moderne che richiamano parecchio gente come Bong, Om, The Body and the Braveyoung, e formazioni di questo genere.
Difficile giudicare. Questa è musica completamente fuori dai canoni, che punta ad avvolgere l’ascoltatore ed a trascinarlo nello stato mentale adatto, onirico e visionario, che occorre per calarsi nell’atmosfera del lavoro. Tanto per capirci, i concerti degli Altaar avvengono con il palco completamente immerso nell’oscurità, solo a tratti fiocamente illuminato dall’accensione di candele o rischiarato dalla proiezione di video autorealizzati. Nessun dubbio che si tratti di performances ai confini del ritualismo mistico ed ossianico, insieme alla estrema teatralità connessa alla musica.
Pertanto, il voto è soltanto indicativo.
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