Tristan Shone è un musicista californiano, di San Diego, anche se definirlo musicista è riduttivo. Egli è un ingegnere meccanico e uno scultore e lavora per un paio di grossi centri di ricerca americani. Cosa c’entra?
Tristan Shone si costruisce da solo le macchine che utilizza per fare la sua musica, cosicché il suono che produce è unico, suo personale al 100%.
E quando veniamo al suono si apre un baratro, un pozzo nero senza fondo, fatto di industrial metallico, drone doom acido, noise pulsante, dubstep e melodie algide.
L’iniziale
title-track ci conduce subito verso una marcia lenta e inesorabile verso lande desolate, lande nelle quali la fisica terrestre è distorta, stravolta. “
In Remorse” non è da meno, come se
Godflesh,
Aphex Twin,
Nine Inch Nails,
Substance D e
Sunn O))) si unissero per tirare fuori il peggio di sé.
“
Melee” ha la poetica tipicamente cyberpunk e post-industriale di
Merzbow,
Dissecting Table e
James Graham Ballard, nell’ostentata ricerca di un punto di incontro tra uomo e macchina e dallo strisciante erotismo che ne emerge, magnificamente ritratto in “
Crash” di
David Cronenberg.
È quasi impossibile descrivere la gamma di sensazioni che la musica di
Tristan Shone tira fuori, scorie di un animo tormentato, decomposizione meccanica di un organismo pulsante, che perde la propria identità.
L’amorfismo del sound di questo “
Women & Children” è solo apparenza, perché la sintesi delle diverse influenze dà vita a qualcosa di nuovo, non ne la sostanza, ma nella forma, perché è la sensibilità dell’autore a declinare il caleidoscopio sonico, che dà spazio anche agli accenni pop di un piano in “
Tame As A Lion”, canzone che potrebbe aver scritto
James Maynard Keenan sotto acido.
“
Fearce” è oceanica nel beat, ma non scorda la lezione di
Trent Reznor, portandola alle estreme conseguenze, pompando tonnellate di riverberi e frequenze distorte nel mixer fino a saturarlo.
“
Miles From Home” dall’incipit potrebbe addirittura richiamare alla mente
Vangelis, i synths si stratificano progressivamente fino quasi alla cacofonia, prima di virare verso un groove introspettivo e decadente.
La conclusiva “
Pain Myself” è una ballad, il piano e la voce di
Tristan Shone disegnano paesaggi malinconici, sebbene disturbati da rigurgiti industriali, in un crogiuolo di emozioni dissonanti e disarmoniche.
Tristan Shone è un fottuto genio, un artista nel senso più pieno del termine e questo disco ne è la prova. Avvicinatevi ma non sperate di comprenderlo, limitatevi a subirlo.