Dopo due EP (Dawn of Frost del 2010 e Our Journey del 2012) in grado di raccogliere discreti consensi da parte della critica specializzata, i
Frosttide possono infine festeggiare l’agognato traguardo del primo full length. La domanda è: anche colui il quale decidesse di investire i propri risparmi nell'acquisto di Awakening avrebbe di che rallegrarsi? In franchezza, fosse stato il sottoscritto a sborsare il gruzzolo, qualche profilo di perplessità l’avrebbe maturato.
Cominciamo dalle note liete: i cinque finlandesini sanno suonare eccome, compongono buone canzoni e hanno optato per un filone metal a me gradito. Trattasi di viking sinfonico alla Ensiferum, miscelato con ampie dosi del death melodico di acts quali Children of Bodom e Kalmah. Quindi, attendetevi gloriose cavalcate, cori bellicosi ed epicità a profusione dalle otto composizioni in scaletta.
Giungiamo ora alle note meno liete: Awakening è estremo quanto sorseggiare un tè caldo leggendo un quotidiano sulla poltrona di casa, con tanto di pantofole e vestaglia a fantasia scozzese.
Trovo sia l’operato del tastierista Felipe Munoz a costituire l’inghippo maggiore. L’onnipresenza (per non dire l’invadenza) delle keyboards diviene spesso un serio problema nel contesto musicale di cui si discute (basti pensare ai pur bravi Turisas); oltre a ciò, nel caso di specie ricorre senza dubbio l’aggravante dei suoni utilizzati. Solari, azzarderei angelici, capaci di soffocare ogni accenno di ferocia battagliera presente nel platter.
Nemmeno la produzione “alla Finnivox” aiuta la causa dell’aggressione sonora: levigatissima, raffinata, con chitarre e basso seppelliti da un’opulenza orchestrale davvero ardua da digerire.
L’impressione che ho tratto dai numerosi ascolti del platter è che i Frosttide abbiano voluto a tutti i costi confezionare un prodotto ricco, professionale e formalmente impeccabile, smarrendo così la vis pugnandi, la grinta e la voglia di inchiodare l’ascoltatore alla sedia che una giovane band dovrebbe possedere in quantità industriali. Qui, invece, sembra mancare l’anima, e suona tutto troppo educato, tanto che nei frangenti più placidi pare quasi di ascoltare i connazionali Stratovarius con Joni Snoro (growler piuttosto inoffensivo) al posto di Kotipelto. Nulla contro la band autrice dell’indimenticabile Visions, ma se voglio ascoltare death/viking non penso certo a loro.
Altra lacuna cui porre rimedio: i testi. Non pretendo affatto la poetica introspezione di Bob Dylan, né d’altra parte il genere in cui i Frosttide si muovono richiede lyrics profonde, ma qui si esagera davvero con banalità e clichès. E poi, suvvia, l’infausta rima “forever together” (o viceversa, il succo non cambia), fieramente intonata nel chorus della title track, non si può sentire! Per questa volta vi perdoniamo, in considerazione della giovane età e del fatto che anche i sommi Iron Maiden ci cascarono nell’ultima strofa della splendida Still Life… Ma non fatelo più, mi raccomando.
A fronte di tanti motivi di doglianza, va d’altro canto riconosciuto ad Awakening di avere più di una cartuccia da sparare: la lunga intro sinfonica Winter’s Call è degna di un blockbuster movie hollywoodiano, le superbe melodie dell’incipit di No Turning Back e di Siege (con ogni probabilità il miglior brano del lotto) sapranno esaltare gli appassionati, così come il break strumentale della suite conclusiva Unwritten (Engraved in the Stars).
Sono convinto, tirando le somme, che i Frosttide possano diventare una realtà di spicco nell’affollato panorama viking. Se convinceranno il tastierista a tenere ferme le dita ogni tanto, se ispessiranno il sound e se infonderanno più sana cattiveria nelle composizioni, credo proprio che riusciranno nell’impresa. Da tenere d’occhio.
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