Fossi stato un recensore anzianotto, avrei senz’altro presentato il gruppo in esame con una frase old school del tipo:
- per la serie “se non sono matti non li vogliamo”, ecco a voi i
The Earls of Mars! –
Ma siccome sono ancora più o meno giovincello, mi limiterò a confermare al lettore eventualmente incuriosito dal bizzarro artwork di copertina che, in effetti, il cd che mi accingo a recensire è piuttosto peculiare.
Questo allegro quartetto di svitati (ormai sono entrato nel mood della terminologia d’antan, portate pazienza) ha avuto origine nel 2012; in realtà, il progetto era nato come one man band del polistrumentista
Dan Hardingham, che tuttavia dev’essersi sentito solo, decidendo così di arruolare tre amici (di bevute).
Pare sia stato
Ben Ward, frontman dei grandi
Orange Goblin, ad accorgersi di loro in occasione di un concerto; di lì a poco, la
Candlelight si è fatta viva e ha messo sotto contratto la band.
Esaurita la contestualizzazione storica, è giunta l’ora degli avvertimenti: l’ho già anticipato, ma sappiate che i
The Earls of Mars si guardano bene dal suonare convenzionali, proponendo una sorta di doom ironico e sornione (per quanto ossimorico ciò possa sembrare), in cui le atmosfere, talora macabre e inquietanti, vengono prontamente stemperate dall’attitudine cazzona e dai testi non proprio seriosi (riassumendo all’osso, si narra di improbabili personaggi dai nomi assurdi che compiono gesta ancor più assurde).
Il sound è reso ancor più spiazzante da una corposa quantità di jazz dall’alto tasso etilico, senza dimenticare qualche assaggio di stoner e di rock psichedelico fine anni ’60.
Completa la delirante ricetta la performance canora di
Harry Harmstrong (anche dietro al pianoforte): se riuscite a figurarvi un intruglio vocale di
Mike Patton,
Lee Dorrian,
Nick Cave e…
Matt Barlow (strano, lo so, ma sugli acuti me l’ha ricordato molto), direi che ci siete quasi.
Non mi sono spiegato, eh? Ne sono consapevole, ma d’altra parte posso assicurarvi che non è semplice. Riproviamo: l’immagine che ho maturato dall’ascolto dell’album è quella di quattro musicisti che, dopo una serata all’insegna di alcool, fumo e quant’altro in un live pub sgangherato e malfamato, decidono di appropriarsi degli strumenti e di lanciarsi in una sconclusionata jam session.
Così, dopo aver tolto la ruggine con la sghemba opener
Poor Whore Petition, i nostri scaldano i motori con il crescendo jazz di
The Swinger e con gli eclettici chiaroscuri della successiva
The Astronomer Pig, per sciogliere definitivamente le briglie grazie all’allucinato stoner di
Cornelius Itchybah (mio brano preferito del platter) e allo strambo jazz number
Otto the Magnificent.
Purtroppo, dopo il momento di gloria, i nostri pagano eccessi e stanchezza, subendo un fisiologico appannamento (
The Mirrored Staircase non convince del tutto, mentre
Some Place e
Mr Osbournes’ Hazelnuts paiono semplici divertissements di breve durata).
Il mio giudizio? Direi il medesimo che avrebbero maturato gli avventori del locale in una situazione come quella sopra descritta: dapprima attoniti, poi perplessi, poi ancora sorridenti e ben felici di concedere qualche meritato applauso, e da ultimo definitivamente conquistati, nonostante la conclusione un pò in calando.
Come loro, non posso che ritenermi soddisfatto, consapevole di essermi imbattuto in una realtà inattesa, originale e divertente.
Vi suggerisco comunque di ascoltare qualche pezzo prima di lanciarvi nell’acquisto di questo bizzarro debut; ma se siete di mentalità aperta, e gradite un po’ di sana ironia nella musica, credo proprio che vi troverete a vostro agio con quei mattacchioni scapestrati dei
The Earls of Mars.
E sull’ennesima espressione da matusa mi autocensuro.