Sarà l’età che avanza, ma io certi meccanismi promozionali proprio non riesco a capirli. Stando alla stampa di settore e soprattutto alla loro casa discografica, i
Venrez sono la new sensation della scena rock mondiale. Incuriosito da questi comunicati quanto meno altisonanti, mi metto all’ascolto di “American illusion”, secondo lavoro dei losangelini, con un certo interesse. Beh, non vi nascondo che alla fine dell’album sono rimasto abbastanza deluso. Di certo non si tratta di un brutto disco, anzi, si fa ascoltare con piacere, tutto sommato, ma da qui a sbandierare ai quattro venti la band ce ne passa, credetemi. Di base i Venrez suonano rock, di quello semplice, diretto, che risulta comunque easy listening, nonostante una decisa componente malinconica/oscura. Da cosa deriva questo lato della loro musica? Senza dubbio da quella che è la loro influenza principale, e cioè gli
Alice In Chains. La scena grunge degli anni ’90, infatti, ha avuto grande importanza per Berez, singer e padre padrone del gruppo, in maniera sicuramente preponderante rispetto a quella dei seventies, in quanto se è vero che qui e lì ci sono dei richiami agli
Zepp, è altrettanto vero che questi sono decisamente flebili rispetto a quelli alla band di Staley e Cantrell. I Venrez però non vivono certo nel passato, ed ecco quindi che oltre ad una vena vagamente glam e qualche spruzzatina alternative, spesso e volentieri spunta fuori qualche sonorità più affine ai giorni che stiamo vivendo, e quindi a quell’hard rock un po’ patinato alla
Velvet Revolver, per capirci. Il fatto che la band abbia accompagnato il riccioluto guitarist (con il suo progetto solista) in tour e che poi abbia fatto confluire nei propri brani sue influenze è un caso? Non so dirvelo, fatto sta che è così… Il disco, come avrete capito, è abbastanza vario, pur mantenendo in quasi tutti i brani quella vena triste di cui parlavo in apertura, soprattutto grazie alle linee vocali di Berez, quindi si passa con tranquillità dalle sonorità più catchy di “Free will”, a quelle quasi psichedeliche della conclusiva e lunghissima (dieci minuti) “Temptress of the moon”, senza scordarsi la più diretta “Unforseen”, non a caso messa in apertura. In ultimo mi preme segnalare “Silver and gold”, che personalmente ho trovato più intrigante degli altri brani presenti, e una cover quasi mansoniana del mega classico “The beat goes on”. Il resto del disco non è brutto, ma non fa neanche gridare al miracolo, ed è per questo che ho fatto quell’introduzione quando ho iniziato questa recensione. E il fatto che i nostri siano passati di recente in Europa ed anche in Italia come opening act della tournee di
Hardcore Superstar e
Buckcherry non fa altro che alimentare il mio sgomento, in quanto penso che quel posto sarebbe stato più appropriato ad una band di ben altro spessore, a meno che, ma questo non posso dirvelo perché non ero presente, non si tratti di veri e propri animali da palcoscenico, ma ho qualche remora a riguardo. Insomma, se alcuni membri del gruppo non avessero avuto già precedenti esperienze in band come
Life Sex Death o
Juliette Lewis And The Licks, dubito che ci sarebbe stato tutto questo clamore intorno ai Venrez, un gruppo sì bravo, ma che non ha nulla di più rispetto a centinaia di band sparse in tutto il globo che continuano a suonare nei piccoli club o ad autoprodursi i propri CD, soltanto perché non baciati dalla dea bendata come è capitato a Berez e soci… Tanto fumo e poco arrosto…
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