“[…]
l’heavy metal è un complesso maelstrom di nevrosi e desiderio. Forgiato in una potenza inflessibile d’ingannevole semplicità, ha un’onnivora brama di vita […]”.
Le parole sono di Ian Christe, sono (brutalmente) estrapolate dal suo interessante “Sound of the beast” e, per quanto mi riguarda, sono perfette per illustrare l’essenza di questo “The weigher of souls”, debutto sulla lunga distanza dei
Black Inside.
Lo stimato scrittore, musicista, ed editore svizzero con la suddetta definizione, nello specifico, si riferiva ai leggendari esordi dei Black Sabbath, ma anche al di là delle connessioni “dirette” tra i nostri napoletani e i maestri di Birmingham (di cui sono stati una
cover band e che tuttora rappresentano un importante ascendente sulla loro esposizione artistica), quello che mi premeva sottolineare con tale analogia è l’urgenza espressiva di una formazione che suona “classic metal” con un’intensità e una vitalità invidiabili, in grado ancora di fare la differenza pure (e soprattutto, direi …) in un momento storico piuttosto favorevole a queste tipologie stilistiche.
Il fatto che dietro al fosco
monicker si celino veterani della scena partenopea e non “ragazzini” alimentati da un congenito entusiasmo, da un lato evidenzia il carattere immortale della “fede metallica” e dall’altro contribuisce verosimilmente a rendere maggiormente solido e profondo l’approccio ad una materia che quando affrontata con superficialità rischia di diventare eccessivamente banale e scontata.
Fidatevi, in quest’album troverete esperienza, cultura, vocazione e fervore, i precetti (e i precettori) della
NWOBHM e del
doom, mentre sarà davvero impossibile rintracciare l’ombra di un formalismo o la sensazione di una qualche forma di sterile riproduzione.
Tradizione e ispirazione s’intrecciano nella potenza e nelle armonizzazioni di “Insomnia”, nelle frenesie vagamente Saxon-
iane di “ Fast as a bullet” e nelle pulsazioni enfatico-corrosive di ”Zombies train”, per poi esplodere letteralmente nel pachidermico lirismo gotico di “Servant of the servants”, nel fascino sinistro e melodrammatico di “Caronte” (contrassegnato da intriganti vocalizzi lirici …) e nelle evocazioni ancestrali di “After the pain”,
fatali per ogni estimatore della
grandeur decadente dei
Sabs.
Ulteriori inconfutabili e deflagranti dimostrazioni di “forza” arrivano dalle atmosfere solenni della
title-track, dal
groove melodico e denso di “20rs old” e ancora dalla monumentale “Getsemani suite”, un fuligginoso poema epico-mistico posto a suggello di un disco su cui gli estimatori del genere farebbero bene ad investire senza indugi.
Se il fenomeno “heavy metal” continua a fare proseliti in tutto il mondo, e la sua versione più “conservatrice” conquista (tra alti e bassi) da così tanto tempo intere generazioni di
musicofili una ragione ci sarà … ascoltare (e sostenere!) gruppi dall’attitudine invincibile come i Black Inside vi aiuterà certamente a svelare l’arcano.
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