Ci sono pochi artisti al tempo stesso odiati e amati come Jon Bon Jovi (mi vengono in mente gli Europe o, in ambiti decisamente differenti, i
fuoriclasse dei “sentimenti contrastanti” Nirvana …), ma anche i suoi detrattori, se provvisti di un minimo di obiettività e non ottenebrati dalla prevenzione (e dall’invidia …), dovrebbero riconoscere i meriti di un personaggio che, almeno agli inizi della sua brillante carriera, ha saputo fornire un fondamentale contributo (oltre ai successi personali, ricordiamo anche il ruolo di
talent-scout … Skid Row e Cinderella, ad esempio) alla scena del
rock melodico, grazie ad un misto di talento, scaltrezza e immagine.
Come spesso accade, assieme alla fama arriva anche l’emulazione, talvolta al limite della parodia, ed ecco che scoprire che
Giulio Garghentini, qui impegnato alla prova del suo primo lavoro solista, è il
front-man dei Dream Company, accreditata
tribute band italiana dei Bon Jovi, per certi versi non rappresentava un’indicazione particolarmente
rassicurante, almeno quanto la posa in odore di
sex-symbol con cui il nostro si fa ritrarre sulla copertina dell’albo.
Beh, stavolta a cadere vittima di una (lieve
eh …) forma di pregiudizio è stato proprio il sottoscritto dacché l’ascolto di “Believe” rivela istantaneamente la classe e l’ispirazione di questo eccellente cantante e compositore nostrano, dotato anche, e pure questo non guasta, di un adeguato
physique du rôle.
Coadiuvato, anche in sede di scrittura, dalla vivida competenza e dall’esperienza di Mario Percudani (Hungryheart, Mitch Malloy, Axe, Issa) e supportato nell’impresa dagli ottimi Gianni Grecchi (Blueville, Rusty Miles), Paolo Negri (Link Quartet, Wicked Minds, davvero pregevole il suo apporto) e Paolo Botteschi (Hungryheart), Garghentini realizza un lavoro di considerevole spessore, in cui il
famigerato John Francis Bongiovi Jr. è solo uno dei numi tutelari (e specialmente a livello di certe inflessioni timbriche, direi …) di uno schema espressivo sempre fresco, assai attraente e sufficientemente carismatico.
Deep Purple, Aldo Nova (un modello importante anche per il celebre
rocker del New Jersey), Little Angels, Bad Company, Trapeze, Extreme e parecchi altri compongono il ricco “corpo insegnante” di Giulio e dei suoi sodali, capaci di nobilitarne le gesta senza per questo tentare di fornirne un imbelle “surrogato”.
Non è facilissimo, e lo dico con risoluta convinzione, nel genere di competenza, trovare “canzoni” più efficaci di "I can’t stand the rain”, della
title-track e di "Rockstar”, esempi di
hard-blues de-luxe da contagio istantaneo, di "Down the line” e i suoi irresistibili sussulti
R'n' B, o ancora di “The words that I haven’t said”, un gioiellino dal
pathos vellutato e notturno e di “Sweet hard fighter”, una delizia melodica assoluta, pregna di pulsazioni sonore di enorme impatto emotivo e di linee vocali, magari pure Bon Jovi-
ane, e tuttavia degne di un plauso pressoché incondizionato.
Il materiale rimanente, sebbene lievemente meno “impressionante” è, poi, anch’esso di notevole valore, con una particolare menzione per la
verve dell’
opener “No second chance” e per "My Jesus”, una
ballad pianistica dall’enfasi vagamente Axl-
esque, a cui Giulio affida tutta la sua sontuosa gamma interpretativa.
“Believe”, vi prego di “crederci”, è un
signor disco e merita un posticino di riguardo nelle vostre preziose collezioni, senza patire di eccessiva soggezione nemmeno nei confronti dei più prestigiosi protagonisti del settore, alcuni dei quali,
ahimè, verosimilmente “persi” per sempre.