Copertina 8

Info

Genere:Prog Rock
Anno di uscita:2013
Durata:60 min.
Etichetta:InsideOut Music

Tracklist

  1. TOWER ONE
  2. SLEEPING BONES
  3. DESOLATION ROAD
  4. WHITE TUXEDOS
  5. THE RESURRECTED JUDAS
  6. SILENT MASSES
  7. LAST CARNIVORE
  8. DARK FASCIST SKIES
  9. BLOOD OF EDEN
  10. SILENT GRAVEYARDS

Line up

  • Hans Froberg: vocals
  • Roine Stolt: vocals, guitars, keyboards, bass
  • Tomas Bodin: keyboards
  • Jonas Reingold: bass
  • Felix Lehrmann: drums

Voto medio utenti

Quando ti appresti ad ascoltare il nuovo lavoro di una band con 20 anni di carriera, che ha contribuito a scrivere la storia del prog rock moderno, capitanata da un signore svedese che di anni di carriera ne conta ormai 40..beh, il senso di sudditanza psicologica non può che essere notevole, tanto più se questo signore hai avuto anche l'occasione di incrociarlo dal vivo.

Due rapidi conti mi portano a dire che "Desolation Rose" è il dodicesimo studio album dei The Flower Kings, band svedese fondata nel 1994 da quel Roine Stolt di cui abbiamo parlato qui sopra, vero genio del progressive rock al pari dei vari Steve Howe, Chris Squire, Robert Fripp e chi più ne ha, più ne metta. Padre e padrone di diversi progetti, tra cui gli splendidi Kaipa, Stolt è una figura fondamentale del prog rock avendo vissuto più o meno da protagonista un'evoluzione lunga quasi mezzo secolo.
E con tutta questa esperienza sulle spalle, condivisa lungamente con i compagni storici Bodin, Froberg e Reingold (anche nei Kaipa), oltre al nuovo arrivato Felix Lehrmann, il risultato non può che essere l'ennesimo piccolo gioiello.
"Desolation Rose" infatti non perde colpi rispetto all'ultimo "Banks of Eden" e, anzi, ci consegna una band più in forma che mai, come dimostrato anche in sede live. Il nuovo disco riesce nel difficile compito di coniugare uno stile più moderno ad uno decisamente più old-school, in particolare nell'uso dell'Hammond e, in generale, delle tastiere di Bodin, sulle quali melodie si appoggiano alla grande le voci intrecciate di Froberg e di Stolt, la cui chitarra intreccia come sempre deliziosi e mai banali virtuosismi. Inconfondibile, come sempre in senso positivo, il basso di Jonas Reingold mentre da sottolineare è ancora una volta la prestazione del nuovo che avanza, Felix Lehrmann, davvero abilissimo nell'uniformarsi a meccanismi ventennali.
L'inizio è in puro stile Flower Kings, con "Tower One" che non è né più né meno che un'epica suite di 13 minuti aperta dalla voce di Stolt e caratterizzata da una prestazione maiuscola da parte di Bodin, qui vero motore trainante. "Sleeping Bones" e la bellissima title-track "Desolation Road" ci portano indietro nel tempo a livello di suoni, ma dannatamente nel presente per quanto riguarda le tematiche trattate, ovvero la desolazione del cosiddetto "terzo e quarto mondo", in favore della ricchezza di Europa, USA e più in generale degli Stati più prosperi. "White Tuxedos" prosegue in questa direzione, aperta da un discorso del fu presidente Nixon, risultando piuttosto cupa nel suo incedere lento, prima di esplodere nel finale in un grandioso connubio di batteria, chitarra elettrica e basso.
"The Resurrection Judas" ci riconduce agli anni dei Genesis, così ricca di chitarre acustiche e mirabolanti tastiere, mentre la successiva "The Silent Masses" si prende, almeno per il sottoscritto, la palma di canzone migliore del disco. Ascoltare per credere.
"Last Carnivore" è forse il brano più tosto dell'album, senza dubbio assieme alla successiva "Dark Fascist Skies", così ricche di chitarre e di drammaticità, mentre con "Blood of Eden", un po' anche per il titolo, torniamo sui territori cari a Yes, Genesis e Peter Gabriel, mentre "Silent Graveyards" non è che un'outro, con la frase "In silent graveyards we look for saviors" ripetuta a più voci come un mantra.

Se siete appassionati di queste sonorità sarà pressoché impossibile non rimanere affascinati da quello che i The Flower Kings riescono ancora a proporre dopo 20 anni di carriera e 12 album: la freschezza del loro lavoro, la genialità riversata sul pentagramma e la semplicità che traspare da ogni nota sono gli innegabili segnali dell'appartenenza a un'elite di musicisti che rimarrà nella storia.

Quoth the Raven, Nevermore..
Recensione a cura di Andrea Gandy Perlini

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 18 gen 2014 alle 18:18

in album pink floyd o rush partivano emozioni e non solo bravura..qui come per i pendragon o per gli eloy..niente mi prende..per niente

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