Due certezze si possono avere nella vita: i governi ballerini in Italia e un disco di
Axel Rudi Pell ogni due anni. Mentre i primi portano soltanto malumori e rabbia, per quanto riguarda il secondo si va sul sicuro. Questo perché il biondo chitarrista tedesco, nonostante la ripetitività dei suoi lavori, riesce in ogni caso a mantenersi su livelli decisamente alti, a dimostrazione del fatto, se mai ce ne fosse bisogno, che per avere un buon disco non è indispensabile sperimentare soluzioni astruse o comunque lontane dal proprio stile. A maggior ragione, poi, quando lo stile è ormai consolidato come in questo caso. Certo, se non amate troppo i riferimenti alle grandi band del passato “Into the storm” non fa al caso vostro, in quanto, come sempre d’altra parte, i richiami ai
Rainbow sono frequenti e palesi. Ma questa non è certo una novità, è noto l’amore incondizionato di Pell nei confronti di
Ritchie Blackmore.
Ciononostante i brani sono come al solito di valore, sia se parliamo di quelli più diretti e grintosi (“Burning chains”, “Tower of lies”, non a caso posta in apertura, o “Changing times”), sia se il ritmo cala un po’ e si assesta su potenti mid tempo (“Long way home”, “Touching Heaven”, “High above”). Chi conosce un minimo la discografia di Pell sa che nei suoi dischi non possono mancare un paio di ballad, ed ecco quindi “When truth hurts”, non eccezionale, a dirla tutta, così come è un classico, ormai, la presenza della mini suite, posta sempre in coda al CD. In questo caso si tratta proprio della titletrack, punto di forza dell’album, e summa dello stile del chitarrista, con i richiami orientali che da sempre fanno parte del suo DNA.
Fin qui nulla di nuovo, quindi. Per riuscire a trovare una novità in questo “Into the storm” dobbiamo dare uno sguardo alla line up, in quanto l’episodio più significativo risiede nel fatto che Mike Terrana, storico batterista della band, è stato sostituito dopo quattordici anni di militanza, e non da un pischelletto qualsiasi, bensì da Bobby Rondinelli (ecco che i legami con i Rainbow tornano prepotentemente), che ha svolto il suo lavoro in maniera più che egregia, da grande professionista qual è. Così come impeccabile, e neanche questa è una novità, è il lavoro di Johnny Gioeli, ormai punto cardine della band, che sfodera come sempre una prestazione potente, pulita e calda, che dona quel famoso quid in più ai brani. Su Axel non mi pronuncio, ormai il suo stile è consolidato grazie a venticinque anni di carriera, quindici album in studio e un’infinità di live, e non si discosta, quindi, da quanto proposto in passato. Per quanto possa subire l’influenza di Blackmore, il nostro riesce comunque, soprattutto in fase solista, a piazzare diverse chicche nei suoi album. Mi ha spiazzato un po’, invece, la cover del classicone di
Neil Young “Hey hey my my”, non me l’aspettavo da Pell. Devo dire, però, che nonostante il gruppo l’abbia fatta propria e quindi l’abbia riproposta nel proprio stile, funziona ugualmente… complimenti!
Che dire… un ottimo esempio di come suonare hard rock di classe, forse uno dei pochi esempi di musica veramente ben fatta, in questo ambito, da parte di qualcuno appartenente alla seconda generazione, e che non ha alcuna intensione di mollare. Un bell’esempio per le giovani band che hanno certamente molto da imparare a livello armonico e compositivo dal nostro tedescone, e se i risultati sono questi, ben vengano l’immobilismo sonoro e qualche richiamo ai Rainbow…