Ci sono band nella storia del metal che sono riuscite a diventare di culto con un solo album. Può sembrare paradossale, ma è così, e lo è anche nel caso dei
Massacre. Quando nel 1991 uscì “From beyond” la band riuscì a piazzare una pietra miliare della scena death metal americana, tant’è che in tutti questi anni sono stati infiniti i gruppi che si sono ispirati a loro e hanno cercato di riprodurne il sound, quasi sempre inutilmente, direi… E la cosa bella è che loro stessi non riuscirono a bissare il successo col suo successore del ’96, infatti di lì a poco si sciolsero.
Dopo vari tentativi di reunion, e i soliti immancabili litigi, Rick Rozz e Terry Butler hanno deciso di andare avanti senza lo storico singer Kam Lee, e di dare finalmente alla luce un degno successore a quel capolavoro di più di vent’anni fa. Reclutati Edwin Webb e Mike Mazzonetto, rispettivamente al microfono e alla batteria, e trovato un contratto con la prestigiosa Century Media, in questi giorni possiamo finalmente goderci “Back from beyond”, che fin dal titolo esplica in maniera inequivocabile le intenzioni della band. Bastano poche note per capire che questo è il vero e solo reale successore di “From beyond”. Sembra assurdo, ma l’impressione che si ha è che non siano affatto passati ventitre anni, e che la band non si sia mai sciolta… “Back from beyond” riprende il discorso esattamente da dove era stato interrotto, e se per molti questo può essere sinonimo di scarsa propensione all’evoluzione da parte di Rozz e Butler, o di eccessiva nostalgia, per il sottoscritto, e per molti come me, è invece goduria per le orecchie… In anni in cui le giovani band fanno a gara per vedere chi è la più truce e old school, nel tentativo troppo spesso vano di riportare in auge determinate sonorità, permettete che gradisca molto di più ascoltarle da chi quelle sonorità ha contribuito a crearle o quanto meno a definirle?
L’album è un concentrato di death metal old school come da tempo non si sentiva, con riffoni monocorde malatissimi e oscuri, assoli taglienti come rasoi, ritmiche assestate per lo più sui tupa-tupa, ma che non disdegnano accompagnamenti più al passo coi tempi, e la voce di Webb che, non l’avrei mai detto, non fa rimpiangere più di tanto Lee (certo, il paragone è pesante, ma tutto sommato Edwin non ne esce con le ossa rotte…). Quindi, se escludiamo una registrazione ovviamente più attuale, e pertanto più nitida e potente, per il resto si tratta di una manna dal cielo per gli amanti del genere… Pezzi killer come la title track, la opener “As we wait to die”, “Hunter’s blood”, “Shield of the son” o “False revelation” non lasciano scampo, e nonostante il numero considerevole di brani (ben quattordici), l’ascolto non risulta ostico, anzi, si arriva alla fine con tanta di quella rabbia in corpo che sarà inevitabile rimetterlo subito di nuovo su…
Immagino già che molti di voi storceranno il muso e sminuiranno l’album. Per quanto mi riguarda ho già acquistato il vinile, e me lo gusterò (altro che digitale) non appena arriverà a casa. In un periodo storico dove troppo spesso si grida al miracolo per dischi dei quali ci scorderemo dopo appena un paio di mesi, io preferisco avere delle certezze da una band onesta, che non si è riunita certamente per soldi, e che è stata capace di regalarmi 44 minuti di pura violenza e puro marciume… Poi fate voi…
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