Ho pensato diversi minuti su come partire con questa recensione del nuovo lavoro dei
Voice of Ruin, davvero non trovavo le parole e non perché sia un disco strepitoso, anzi, è una chiavica. Quello che mi ha stupito è che... insomma.. qui abbiamo il “
farm metal” gente, il metallo dei bovari.
Quando pensi di averle viste di tutti i colori in tanti anni di metallo, ecco che arriva il colore marrone. Questi cinque svizzeri si lanciano in una, per loro, strepitosa invenzione, ovvero infarcire testi di trattori, vacche da mungere e ogni sorta di lavoro che si può fare in una fattoria. Non si tratta di una descrizione meticolosa che insegna in che periodo mietere il grano, raccogliere i pomodori o quando inizia l'allegagione o come difendere la vite dalla fillossera, sono semplicemente storie di bevute, di donne, di sbronze con lo sfondo della fattoria. A livello di liriche sono degli Steel Panther agricoli, date un occhio ai loro nomi e titoli dei pezzi e vi farete un'idea. Naturalmente i nostri cinque “musicisti” si adattano alla situazione presentandosi così:
Ora, se questa buffonata oltre a far sorridere, portasse con sé della buona musica, sarei contento di andarmi ad infilare gli stivali di gomma e pulire la stalla dallo sterco ma quando è la musica ad essere lo sterco, non c'è forcone o pala che tenga. Quello proposto è infatti un metalcore uguale a migliaia di altri, composto da canzonette che si rifanno a
Heaven Shall Burn, Caliban, Trivium, As I Lay Dying, All That Remains e compagnia, roba di cui, sinceramente, non si sentiva la nostalgia.
Non si discute sul fatto che la loro proposta sia suonata in modo decente, è che il vocione cattivone, i mille breakdown, gli inserti vocali puliti, le melodie cristalline affiancate ai chitarroni, la batteria triggerata... sono meno utili del guano di gallina nell'orto.
Le vacche sono magre e da mungere è rimasto poco, soprattutto in questo sotto-genere, forse conviene veramente trasferirsi in un appezzamento fuori città e lasciare la musica alle sagre di paese.
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