Il 2010 è stato un anno decisamente importante per la carriera degli
Accept. Se non si può parlare di rinascita (in fondo la band non è mai del tutto morta, nonostante i momenti di stop), di sicuro possiamo affermare che negli ultimi quattro anni i tedeschi stanno decisamente vivendo una seconda giovinezza. Sicuramente parte del merito è attribuibile all’ingresso dietro il microfono di Mark Tornillo, che ha dato una sferzata alla vita dei nostri, stimolandoli a fare quello che sanno fare meglio, e cioè del classicissimo heavy metal di gran classe. Risultato di questa ventata di freschezza portata in casa Accept è stato il fenomenale
“Blood of the nations”, uno dei dischi metal più belli usciti negli ultimi anni. Come se non bastasse Wolf Hoffmann e soci sono riusciti non solo a bissare quanto di buono fatto con quell’album, ma addirittura a superarsi con il successivo
“Starlingrad”.
Potete immaginare, quindi, quanta attesa ci fosse (complice anche la copertina, tanto tamarra quanto bella…) per il nuovo “Blind rage”, principalmente per verificare se la band sarebbe riuscita ad affilare la fantomatica tripletta oppure sarebbe incappata in un mezzo passo falso. Beh, in tutta sincerità, non posso affermare né l’una né l’altra cosa, in quanto l’album è in ogni caso assestato su buoni livelli. Non tanto quanto i suoi due illustri predecessori, ma per fortuna abbastanza alti da non poter parlare di flop. Ho notato in questo scorcio di carriera della band la stessa cosa successa agli
Overkill, anch’essi rinvigoriti e ringiovaniti da un album spettacolare come
“Ironbound”, seguito dall’altrettanto buono (anche se un pelo inferiore)
“The electric age”, fino ad arrivare a
“White devil armory”, almeno per me una mezza delusione. Sembra quasi che le due band, trovata la formula vincente, in entrambi i casi si siano limitati a riproporla, con un’ispirazione decisamente inferiore, senza il brano killer che ti penetra il cervello, senza le soluzioni armoniche che nei primi due dischi presi in esame hanno fatto la differenza. Per carità, stiamo parlando in ogni caso di signori album, sicuramente sopra la media delle uscite discografiche odierne, ma, almeno secondo me, non al livello al quale siamo stati abituati e al quale, ne sono certo, possono arrivare i nostri.
Nello specifico, in questo caso sono troppi i mid tempo che non decollano. Si ha l’impressione che siano stati inseriti giusto per allungare un po’ il brodo e riempire qualche buco. E pensare che il disco parte in quarta con “Stampede”, veloce e melodica come piace a noi. Già però dalla successiva “Dying breed” si percepisce che qualcosa non gira per il meglio, visto che sembra quasi una outtakes di “Stalingrad”, senza averne però tutta la classe. I due mid tempo successivi non migliorano di certo le cose, soprattutto il secondo “Fall of the empire”, davvero noiosetto. Fortunatamente “Trail of tears” riporta la band sulla giusta corsia: veloce, ispirata, con un grande lavoro di chitarra, vi farà scapocciare selvaggiamente per quattro minuti. Al di là della velocità, è questo il tipo di brani che ci aspettiamo, basta ascoltare il refrain per capire cosa intendo. Purtroppo si scende di nuovo di livello con le successive “Wanna be free” e “200 years”, altro mid tempo palloso la prima, un po’ insipida la seconda. “Bloodbath mastermind” fortunatamente risolleva le sorti del disco, con un tocco di epicità che non guasta mai e soprattutto con un sapore molto classico come è lecito aspettarsi… Purtroppo, però, incredibile da credere, ci aspettano altri due mid tempo dietro l’angolo: più convincente “From the ashes we rise”, già sentita mille volte “The curse”. Per fortuna l’album si chiude in bellezza, così come era stato aperto, con “Final journey”, killer song che da sola varrebbe l’acquisto, e che ci riconsegna la band alle prese con la musica classica, grazie alla citazione de “Il mattino” della “Peer Gynt, suite n. 1” di Edvard Grieg.
Insomma, com’è questo “Blind rage”? È un buon disco, ben suonato, ben prodotto dall’ormai collaudato Andy Sneap, un po’ meno ben concepito, fattore, questo, che sicuramente mi porterà a non riascoltarlo più di tanto tra qualche tempo, cosa che invece sto continuando a fare con “Blood of the nations”, per esempio… Un mezzo passo falso che sicuramente non intaccherà la carriera dei tedeschi, ma al tempo stesso un’occasione in parte sprecata per confermarne la leadership in campo classic metal…