Mentre i
Big Four annaspano (
Slayer a parte…), la ‘manovalanza’ thrash, come qualche stolto si permette di chiamarla, non sta certo a guardare. Se
Testament e
Overkill sono ormai anni che stanno vivendo una seconda giovinezza, mancava ancora qualcuno all’appello, visto che gli ultimi album, almeno per il sottoscritto, non erano certo all’altezza del nome che li aveva partoriti. Troppo moderni, troppo pesanti, troppo snaturati, e con quella voce che sì, non era affatto male, ma di certo non faceva parte del trade mark della band (non me ne vogliano Rob Dukes e i suoi fans, ma è così…). Beh, richiamato all’ovile il figliol prodigo Steve “Zetro” Souza, gli
Exodus tirano finalmente fuori l’album che tutti i loro fans aspettavano ormai da tempo. Ovviamente non è certo logico limitare la buona riuscita del disco al solo rientro in formazione di Zetro, ma certamente la sua voce acida e stridente ha contribuito tantissimo all’economia generale di un album che, difficilmente mi si potrà smentire, si candida di diritto a miglior disco thrash del 2014!
Se quindi, da una parte, c’è l’entusiasmo per l’ondata di freschezza che il ritrovato singer ha portato nel sound della band, dall’altra c’è la certezza di una formazione ormai stabile da tempo, con un Gary Holt in gran spolvero e particolarmente ispirato, supportato alla grande dal suo vecchio compagno di avventura Tom Hunting, che trita tutto dietro le pelli, e dai ‘nuovi’ Lee Altus e Jack Gibson, entrambi impeccabili e ormai perfettamente integrati. Fin qui nulla di particolarmente strano, tutto sommato, pertanto cos’è che rende questo disco differente dagli altri e quindi migliore? Sicuramente il fatto che Holt sia tornato a fare quello per cui è nato, e cioè suonare THRASH! Messe da parte le gare di pesantezza nei confronti degli altri gruppi, il sound s’è snellito, tornando decisamente alle origini, pur mantenendo, ovviamente, gli standard di qualità attuali, e in questo è stato fondamentale, come sempre in decine di album degli ultimi quindici anni, l’apporto di Andy Sneap, al solito impeccabile dietro il banco mixer. Quindi “Blood in blood out” suona potente, ma al tempo stesso secco, scevro di ogni sonorità superflua, come si faceva negli eighties, in cui si puntava tutto sulla sostanza e poco sull’apparenza. Altro fattore fondamentale, il songwriting. Qui c’è classe, signori, si è tornati di nuovo a impartire lezioni, con brani ricchi di pathos, feeling, violenza, assoli splendidi ed ispirati che spesso portano a delle aperture melodiche che solo i grandi sono in grado di proporre, vocals graffianti (è commovente poter ascoltare di nuovo Zetro urlare nel microfono) supportate dai classici cori da gang, ritmiche semplici ma efficaci, tutto ciò, insomma, che non può e non deve mancare in un masterpiece del genere.
Se poi si compone un brano come “Wrapped in the arms of rage” (che entra di diritto, insieme a “Bring me the night” degli
Overkill nella mia top five thrash songs degli ultimi cinque anni!!), ci si può permettere di pis***re in testa a molta gente. Basta questa singola canzone a spazzare via la miriade di gruppi fotocopia che intasano il filone del thrash revival, e che mai arriveranno alla classe compositiva di Holt e company. Ma non è certo questo unico episodio a farsi notare, basti pensare alla dirompente titletrack, una esplicita dichiarazione di intenti relativa al loro ritorno prepotente al thrash più puro, l’opener “Blanck 13”, che ha un’intro ad opera di
Dan The Automator letteralmente rubata (immagino volutamente, a mo di tributo) alla versione live di “Highway star” dei
Deep Purple e che mette in chiaro le cose fin da subito, “Collateral damage” o “Salt the wound”, che è balzata agli onori della cronaca per la presenza di un assolo firmato da Kirk Hammett (inconfondibile col suo wha-wha), ma che vive di luce propria. E questo giusto per citare quelle che più di altre rimangono appiccicate sulla pelle, ma l’album è bello in toto, non ci sono filler. Se proprio vogliamo essere pignoli e trovare il classico pelo nell’uovo, direi che il difetto più evidente di “Blood in blood out” è quello che da sempre affligge la band californiana, e cioè l’eccessiva lunghezza di alcuni brani, e, conseguentemente dell’intero disco. Un taglio di una trentina di secondi qua e là avrebbe senz’altro giovato all’ascolto, ma stiamo parlando, come detto, di particolari non fondamentali.
Prima di chiudere volevo soddisfare una curiosità che, penso, molti di voi avranno: la militanza di Gary Holt negli
Slayer ha influenzato il songwriting? Ascoltando bene l’album direi di no, lo stile è quello che da sempre contraddistingue l’ascia degli Exodus. Se proprio la band di King e Araya ha lasciato qualcosa a Gary, direi che si tratta di un’inconscia tendenza ad indurire di brutto il sound generale, sempre però camminando lungo binari prettamente thrash, quindi dormite pure sonni tranquilli… Detto ciò non penso ci sia altro da aggiungere, “Blood in blood out” è un album da acquistare assolutamente, senza se e senza ma… Per quanto mi riguarda si è immediatamente guadagnato di prepotenza un posto nella mia top ten di fine anno, e il fatto che stia girando ininterrottamente nel mio lettore da diversi giorni qualcosa dovrà pur significare…