Quando l'Heavy Metal era al potere, libero di esprimere tutta la sua forza dirompente senza dover chiedere il permesso a niente e nessuno (leggasi social), succedeva spesso di imbattersi in selvaggi cavalli di razza. È il 1987, ed il grande "Mega"
Dave Mustaine viene attenzionato da questa sconosciuta band di Seattle chiamata
Sanctuary, la cui principale peculiarità deriva sicuramente da un cantante tanto straordinario quanto distintivo. Il suo nome è
Warrell Dane, biondo lungocrinito con una particolare predisposizione per gli acuti lancinanti. Non voglio fare paragoni irriverenti con situazioni musicali sicuramente più "colte", ma la sua voce, almeno agli inizi della carriera, è quanto di più vicino si possa immaginare ad un "soprano maschile", calato naturalmente in un contesto metallico. L'ex chitarrista dei Four Horsemen, ed attuale leader indiscusso dei
Megadeth, rimane evidentemente folgorato dall'istrionico talento dei Sanctuary, tanto da farsi carico del loro esordio.
"
Refuge Denied" esce per la potentissima major CBS/Epic, candidandosi immediatamente alla palma di miglior opera prima per l'anno di grazia 1988. Il power/thrash del quintetto americano non si discosta poi molto da quanto precedentemente proposto dai
Metal Church di "
The Dark" ma, esattamente al pari degli inventori della "chitarra zombie", può contare sull'esposizione di un'ugola "extraordinaire" come quella del succitato Dane. La gestione e la definizione del suono diventano infatti elementi di secondaria importanza di fronte alla forza evocativa generata dalle sue pazzesche peripezie. Il lato A di "Refuge Denied" è pressoché leggendario: dall'iniziale cavalcata di "
Battle Angels" fino alle rasoiate di "
Soldiers Of Steel", passando per la cupa dinamica di "
Termination Force", ma soprattutto per la spettacolosa "
Die For My Sins", in cui l'urgenza della NWOBHM e la pesantezza del thrash si uniscono in un mirabile connubio stilistico.
Con l'autocitazionista "
Sanctuary" si fa strada la teatralità esecutiva di Dane, che tanto successo avrebbe successivamente riscosso con l'ascesa dei
Nevermore, dalla seconda metà degli anni 90 fino alla prima decade del nuovo millennio. Bellissima ed assai personalizzata anche la cover di "
White Rabbit", firmata dagli psychedelic heroes
Jefferson Airplane, con quella vena "acida" che viene sostanzialmente preservata, senza andare a discapito delle bordate heavy metal. Una predisposizione a rendere propri pezzi "classici" che raggiungerà definitivamente la sublimazione dai Nevermore di "
Dead Heart In A Dead World", con una irriconoscibile quanto geniale versione di "
The Sound Of Silence" dei
Simon & Garfunkel. La produzione di Mustaine è ancora legata agli stilemi del metal anni 80, con suoni di batteria rutilante ed iperamplificati, come se si trattasse di rendere giustizia ad un album dei Megadeth stessi; e se per alcuni questo potrebbe oggi rappresentare un difetto, per tutti i nostalgici e gli oltranzisti della "decade Metal" per eccellenza, si tratta di un ulteriore valore aggiunto. Il fatto che "
Ascension To Destiny" e "
The Third War" evochino certe suggestioni
Savatage, in special modo vincolate al moloch "
Hall Of The Mountain King", non fa che confermare quanto già sostenuto nelle affermazioni precedenti. Warrell Dane proferisce le strofe di questi due episodi quasi stesse recitando una blasfema litania, e l'effetto è di quelli che non si dimenticano facilmente nemmeno nel 2021, nonostante l'importante gap temporale.
Non solo lo step forward dei Nevermore è ancora un futuro remoto nella stratosfera heavy, ma non risulta riscontrabile nemmeno alcuna palpabile traccia nel più crepuscolare "
Into The Mirror Black", che costituirà il follow-up di "Refuge Denied". Poco male, questi Sanctuary possiedono un'identità probabilmente meno peculiare, ma sicuramente più genuina ed entusiasta. "
Veil Of Disguise" pone il sigillo su un album certificato deluxe, ma che avrà soprattutto il merito di lanciare la carriera di un cantante destinato a lasciare il segno (e che segno!) negli anni a venire.
La sua prematura dipartita costituisce una ferita tuttora aperta, che difficilmente potrà essere rimarginata da nuovi virgulti del microfono con personalità artistica prossima allo zero.