In Germania, a metà anni ’90, quattro ragazzi dal tragico passato (caratterizzato prevalentemente da suicidi e lutti importanti), contribuiscono a mettere le fondamenta di un nuovo modo di suonare che amalgama il black metal, in particolar modo quello del primo
Burzum, con la lentezza del doom, e che assieme ad altre realtà underground metterà i semi da cui in futuro germoglierà il Depressive Suicidal Black Metal.
I
Bethlehem, assieme ad altre formazioni, tra cui oltre al già menzionato conte mi sentirei di citare gli
Abruptum, i
Forgotten Woods e primariamente gli
Strid (seppur con un unico EP rilasciato), sono stati fondamentali per la nascita di questo sottogenere; non solo per l’aspetto prettamente musicale, ma anche e soprattutto per le tematiche ruotanti attorno alla morte, e in particolar modo al suicidio.
Nonostante non dovrebbero esserci bisogno di presentazioni sono in realtà conscio che non sia sempre così, e dunque…
I ragazzi in questione decisero di far confluire tutto il loro malessere all’interno di una cosa “molto importante” – come affermato dal leader
Bartsch – che è la musica. E lo fecero formando i
Bethlehem, riuscendo così ad arginare e a dare una valvola di sfogo “innocua” alle loro ossessioni mortifere.
I tedeschi dopo aver dato alle stampe
“Dark Metal”, nel 1994, dove il black assumeva un connotato atmosferico dalle tinte gotiche, che si ibridava al contempo con un sound doom estremamente funereo, andando così a formare quasi un vero e proprio sottogenere (che loro stessi definirono dark metal per l’appunto); nel 1996 si riproposero con
“Dictius Te Necare”, rilasciato sotto l’egida della
Red Stream, Inc.
Questo disco,
“Dedicato a tutte le vittime di suicidio”, vede innanzitutto un cambio di line-up con l’ingresso di
Rainer Landfermann alla voce al posto di
Andreas Classen, il quale in seguito, insieme a
Niklas Kvarforth, darà origine agli
Shining, altro nome di punta della futura scena DSBM.
Per il resto i membri rimangono gli stessi, ovvero
Klaus Matton alla chitarra, il leader
Jürgen Bartsch al basso (questi due in origine facevano parte della thrash metal band Morbid Vision) e
Chris Steinhoff alle pelli.
Innanzitutto vi è da focalizzare l’attenzione sul cambio al microfono, che si rivelerà di importanza capitale. Affermo questo in quanto lo stile di
Landfermann, basato su una sorta di scream stridulo e assai originale, sembra quasi fondere le classiche tonalità del black della seconda ondata con quelle di voci iconiche e acute sulla scia di
King Diamond; il tutto elevato all’ennesima potenza con la sguaiatezza del dolore più lancinante. Le sue linee vocali hanno più attinenza con un latrato sofferente, e a tratti rabbioso, piuttosto che con un vero e proprio scream.
La sua prestazione resta uno dei punti di forza del disco; e nonostante di tecnico il suo modo di cantare abbia ben poco – a onor del vero, ho sempre avuto la sensazione che non fosse realmente puntuale nel rispettare i tempi delle battute dettate dagli strumenti –,
Landfermann è sicuramente quanto di più originale fosse possibile reperire in quel periodo, ed un vero e proprio antesignano per le generazioni future della fiamma nera.
Per riconferma di ciò che ho scritto basti pensare alla voce di
Nattram con i suoi
Silencer…
“Dictius te Necare”, assieme ad un’altra piccola manciata di album, è tra i capitoli più entusiasmanti che siano stati prodotti in ambito estremo.
Un LP solo apparentemente sconclusionato, in grado di toccare varie corde che si protendono verso tutte le innervature capillari in cui si era diramato fino ad allora il metal estremo, e non solo. Difatti mantiene al suo interno reminiscenze heavy di vario tipo, e in particolar modo un rifferama e un utilizzo di tempi dilatati e cadenzati che pesca a piene mani dai
Black Sabbath.
Dentro questo buco nero vi è melodia, lentezza asfissiante, oscurità, violenza sonora tipicamente black old-school, ed echi thrash che, sorprendentemente, riescono a rendere orecchiabile e avvincente qualcosa che di per sé non potrebbe mai esserlo.
La disperazione, il dolore, la mania suicida e omicida; quella che secondo il Freud della seconda teoria delle pulsioni appartiene a Thanatos, viene qui incanalata con tutta la sua forza da Eros, la pulsione di vita, sottoponendola così a un processo di sublimazione che la trasmuta in arte.
Perché signori miei questa è arte allo stato più puro. E come tutte le grandi opere artistiche ha il pregio dell’autenticità, recante con sé, com'è naturale che sia, il seme dell’innovazione.
Non si deve pensare che le mie parole siano eccessive, o che i
Bethlehem erano semplicemente dei pazzi inconsapevoli di ciò che stavano creando… Forse non comprendevano la portata che avrebbe avuto il loro “messaggio”, ma indubbiamente erano consapevoli che stavano cercando di salvare le loro vite con la musica.
“Rappresentiamo la vita e la morte. Celebrare soltanto un lato di qualunque cosa – che sia bianco e nero, vita e morte – non è naturale. Abbiamo sempre avuto umorismo nei Bethlehem. Non può esserci sempre e solo aggressività. Prima di tutto, è noioso. In secondo luogo, è irreale. Non è parte del tutto. Le nostre canzoni e i nostri testi malinconici sul suicidio e sulla morte avevano un altro lato, ma la maggior parte delle persone non se ne rende conto. Anche le nostre canzoni erano a favore della vita. Non erano esclusivamente a favore della morte. Odio fare solo una cosa. Questo è probabilmente il motivo per cui abbiamo tanti elementi aggressivi quanti elementi positivi e melodici. C’è una sfumatura malinconica nel nostro repertorio melodico e positivo, questo devo dirlo.”(
Bartsch)
“Dictius te Necare”, a parere puramente personale, rappresenta lo zenit della discografia dei
Bethlehem; e assieme ai componenti innovativi del successivo e grandioso
“Sardonischer Untergang im Zeichen irreligiöser Darbietung” del 1998 (che si muoverà invece su lidi più atmosferici, avvicinandosi così ancor di più al DSBM attuale), contribuirà ad imprimere una nuova espressione di sofferenza sul volto emaciato del metal estremo.
Recensione a cura di
DiX88