Un triplo disco di Platino, diversi premi all’Emma-Gala in Finlandia, tra cui quello per l’“album metal dell’anno”e per l’“album più venduto”: il quintetto capitanato dal bel tenebroso Tuomas e rappresentato dall’avvenente Tarja ha pienamente abbracciato, con quest’album, la via del successo, grazie anche al passaggio dalla Drakkar alla Nuclear Blast. Holopainen ha così trovato gli strumenti per realizzare efficacemente un’idea di musica spettacolare, maestosa, di impatto, che ha portato il gruppo ad una scelta dichiaratamente symphonic-metal. Ciò è avvenuto grazie ad una maggiore distribuzione (90.000 copie vendute solo nella loro terra natale) e ad un’attenzione all’immagine che ha fatto pensare ad un orientamento sempre più commerciale della band. Tuttavia il disco non è affatto easy-listening come ci si aspetterebbe, ma al primo approccio appare come qualcosa di completamente nuovo per chi ha seguito interamente o in parte la carriera dei finnici, da “Angels Fall First” a “Century Child”. All’inizio ho avuto la sensazione che ci fosse una certa ridondanza in tutta quell’orchestrazione, nel suo carattere simil-cinematografico; con i successivi ascolti sono invece stata rapita dai ritmi trascinanti e dai continui cambiamenti nello sviluppo delle canzoni, dal massiccio utilizzo di archi e fiati che, non più un semplice sottofondo, interagiscono e dialogano con gli altri strumenti. La collaborazione con la London Academy of St.Martin in the Field Orchestra, già interprete di alcuni brani de “Il signore degli Anelli”, si è rivelata infatti una scelta azzeccata nella resa di un’ambientazione sonora sontuosa e decadente, parzialmente bilanciata da pesanti guitar riff e dalla voce graffiante di Hietala. Quest’ultimo, già bassista dei Sinergy e Tarot, ha assunto un ruolo centrale nel contrapporre la ruvidezza del proprio cantato ad un rinnovato utilizzo vocale della Turunen, contrasto evidente ed efficace in brani come “I wish I had an angel”, che è stato scelto come colonna sonora del film “Alone in the dark”.
Il nostro soprano ha cercato di dare un’impronta meno operistica e lirica alla propria voce, come già aveva tentato in “Century Child”, ma ottenendo qui migliori risultati: la resa è un po’ più leggera e più rock allo stesso tempo, senza che ciò vada a penalizzare la fusione armonica con l’impianto strumentale. Tarja ci regala un vibrato accattivante e non eccessivo, abbandonando talvolta i registri più elevati da lei sempre prediletti per scegliere toni maggiormente da contralto. “Once” appare vario anche dal punto di vista della sezione ritmica, in cui troviamo Yucca a destreggiarsi tra tempi sempre diversi, anche all’interno di una stessa traccia.
Il disco si apre con “Dark Chest of Wonders”, un up-tempo caratterizzato da cori classicheggianti che si innestano perfettamente sullo sfondo di chitarre aggressive e sul ritornello molto melodico; si prosegue con “I Wish I Had An Angel”, un brano duro e carico di energia in cui una batteria che sembra addirittura campionata si accompagna a chitarre distorte, fino al climax finale introdotto da un brillante assolo all’organo. Incontriamo successivamente il primo singolo dell’album, “Nemo”, dalle linee vocali quasi pop, che ricalcano la struttura portante costituita da un semplice ritornello al pianoforte, il tutto incorniciato da suggestivi arpeggi; “Planet hell” d’altro canto è ancora una volta occasione di confronto tra voce maschile e femminile in un pezzo di travolgente energia.
Ci troviamo poi di fronte al primo esempio, nell’album, di contaminazione culturale di ampio respiro: stiamo parlando dell’originale “Creek Mary’s Blood”, che presenta sperimentazioni musicali (il flauto indiano e le percussioni a metà strada tra la marcia e la danza rituale) e persino linguistiche, con una poesia in lingua lakota recitata in chiusura. La guest star indiana che presta la propria voce nel parlato e suona lo strumento a fiato tipico del suo popolo è John Two Hawks, che insieme alla Turunen ci narra la devastante guerra tra uomo bianco e nativi americani che si svolse a cavallo tra ‘700 e ‘800. Questo è solo uno dei tanti segni di maggiore apertura nella composizione: basta ascoltare gli sviluppi vagamente arabeggianti di “The Siren”, le voci ipnotiche e leggere che ricreano il moto ondoso delle acque marine in una scala minore melodica.
“Dead Gardens” è invece una canzone tipicamente alla Nightwish e ricorda non poco lo stile di “Century Child”, motivo per cui, pur essendo orecchiabile, non è tra le migliori dell’album; la successiva “Romanticide” è il brano più duro del disco, in cui a turno basso, chitarra e batteria prevalgono sugli altri strumenti lasciando per una volta in secondo piano le tastiere. Il vero capolavoro è però “Ghost Love Score”, composita quanto e più di “Fantasmic”, pur essendo di tutt’altra natura: nelle quattro parti che la compongono vengono coinvolte in misura differente tutte le sezioni dell’orchestra, mentre il coro fa da struttura portante del ritornello.
Ed ecco che ci viene nuovamente proposta una ballata in Finlandese, così come era accaduto in “Angels Fall First” con “Lappi (Lapland)”: “Kuolema Tekee Taiteilijan ” esprime il desiderio di sottolineare le origini dei membri della band, pur in chiave meno folk del suo precedente, avvalendosi dell’evocativo suono del flauto e della viola. In chiusura troviamo “Higher Than Hope”, interamente composta da Marco, che è classico esempio di power ballad con tanto di introduzione alla chitarra acustica, arricchita dal pizzicato degli archi nella seconda parte.
Il ricorso così frequente al coro e all’orchestra che ritroviamo in questi pezzi è funzionale all’espressione di un’atmosfera drammatica e malinconica, che traspare nei testi, in cui vediamo più volte citate le figure del Bambino e della Sirena, incarnazione dell’innocenza e del mito. Dalle liriche emerge inoltre il contrasto che da sempre caratterizza il cosmo quello tra odio e amore, innocenza e malizia, presente e passato. Un passato rimpianto a cui si allude nello stesso titolo dell’album e nella copertina, che ritrae “L’Angelo del Dolore” di William Wetmore Story, già utilizzato per le proprie cover da Evanescence, Tea Party e Odes of Ecstasy.
In conclusione, “Once” è decisamente diverso da “Oceanborn”, capolavoro insuperato per intuizione, anche se è senza dubbio il più studiato ed elaborato che i Nightwish abbiano mai realizzato, grazie anche agli arrangiamenti corali e orchestrali di Pip Williams, che ha coordinato la registrazione avvenuta nei Phoenix Studios di Londra. Rappresenta una svolta positiva della band dopo la caduta avvenuta col precedente album: per questo “Once” è pienamente promosso, pur non raggiungendo le vette sfiorate in passato.
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