Già il doom non è musica facilmente assimilabile... se poi all'interno del genere a qualcuno viene in mente di concepire dell'extreme funereal doom, per noi poveri ascoltatori è proprio finita. Ai Pantheist piace comporre delle lunghe e lentissime litanie, delle penose processioni in cui auto-infliggersi massicce dosi di dolore. E lo fanno unendo agli strumenti tradizionali, tutta un'altra serie di mezzi espressivi che variano dal coro monastico al beat elettronico. Per i Pantheist il doom più sepolcrale non è sufficiente a raccontare la storia dei peccati capitali dell'uomo: per questo motivo il gruppo d'importazione inglese ama sperimentare anche con il black metal e l'elettronica più martellante. La struttura delle canzoni è tradizionale per almeno tre quarti del pezzo, prima cioè di esplodere in un finale del tutto inaspettato, visto il dipanarsi della composizione. Ma la musica dei Pantheist è assolutamente sgradevole... addirittura l'opener "Apologeia" discrimina in maniera netta tra chi mollerà l'ascolto e chi riuscirà davvero ad andare avanti: tra esasperate dissonanze e uno stile vocale stonato e lamentoso, c'è davvero poco da raccogliere. Fortunatamente proseguendo con le tracce l'album diventa leggermente più accessibile, pur mantenendosi su coordinate che fanno quasi sembrare i My Dying Bride (principali ispiratori dei Pantheist) un gruppo di ragazzi spensierati. "Amartia" è un lavoro difficile da comprendere e per certi versi impossibile da digerire... forse piacerà agli appassionati del genere, ma non è cosa per la quale metterei la mano sul fuoco.
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