La biografia dei
Vindra è a tratti commovente. Nati nel 2004, dopo varie peripezie, questi svedesi di belle speranze giungono alla prima release nel 2008 (
"Heroes Of The Unfinished Symphony") per poi suonare in lungo e in largo nel proprio paese promuovendo addirittura una compilation di brani precedentemente composti e mai stampati (
"The Beginning", del 2011). Sempre nel 2011 iniziano i lavori per questo
"Mournful Boy" ma i quattro, incerti sulla strada da percorrere, scartano il materiale fino ad allora elaborato per ricominciare tutto da capo, diventano genitori (3/4 di loro) e trovano un'etichetta tedesca disposta a investire sul disco, la
Dust On The Tracks Records. Ora tirate fuori i fazzoletti: la label di cui sopra fallisce
(del resto se c'è della "polvere sulle tracce" qualche dubbio te lo devi pur far venire, ndr) e i nostri, con un pugno di mosche in mano, sono costretti ad autofinanziarsi per pubblicare il materiale tanto sofferto.
Ironia a parte, dopo aver ascoltato il full-length, quello che mi sento di dire è che sicuramente i membri di questo combo non sono dei "fenomeni" (né come autori né come performer), ma nonostante questo ce la mettono tutta per cercare di essere vari e interessanti senza dover rinunciare a quella coerenza che, se mancante, vanificherebbe gli sforzi intrapresi per arrivare a questo risultato.
Le coordinate stilistiche rimandano a un alternative rock melodico di matrice Nineties (quasi metal nelle intenzioni, ma troppo “zozzo” nell’esecuzione per poter essere considerato tale) con rimandi agli Eighties nelle armonie vocali e ai Seventies nelle fasi solistiche, equamente distribuito tra episodi lenti e veloci. Eccoci allora immersi in brani talvolta elaborati (l’iniziale
“Shangri-La”, “Cold Eyes” o
“Escape Into Darkness”), talvolta più diretti e incisivi (
“In The End”, “In Life And Death”, “Sacrifice”, “Distant Traveler”), reminiscenze pinkfloydiane (
“Dreamless”, lo strumentale
“The Depths Of Vanadis”,
“White Lie”) e richiami più marcatamente mainstream (
“Ghost Town” fa addirittura pensare ai Police o agli U2). Un’onesta produzione poco ricamata e molto “live-in-studio” risulta, in questo caso specifico, un
plus che caratterizza meglio i suoni dei singoli brani senza omologarli e scacciando quel pericoloso spettro chiamato “noia”.
Il voto va all’impegno: non penso che si sentirà parlare molto di questa formazione e probabilmente io stesso non li ascolterò più nella vita ma voglio comunque premiarli per la costanza e la determinazione.
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