I
Devildriver giungono al settimo full-lenght con il presente “
Trust No One” e sono sempre più la band di
Dez Fafara. Il nostro non ha dimenticato i tempi dei
Coal Chamber e del debutto omonimo, quando, imbastito un groove da cardiopalma, picchiava giù duro latrando strofe come se non ci fosse un domani.
La considerazione di cui sopra ci porta direttamente al nocciolo della questione.
I
Devildriver stanno ai
Coal Chamber come i
Machine Head del 2016 stanno ai…
Machine Head!
Fuori di metafora, il sottotitolo è come fare un passo indietro dal punto di vista dell’originalità/innovatività/freschezza compositiva, e farne molti in avanti dal punto di vista della paraculaggine.
Metalcore, thrashcore, groove metal, in qualsiasi modo lo vogliate chiamare ci troviamo di fronte a una band picchiaduro della quale o siete fan duri e puri o vi riuscirà difficile distinguerla dalle innumerevoli altre band che suonano simili o addirittura uguali.
E, paradossalmente, più il disco è suonato e prodotto bene e meno personale suona.
L’appiattimento generale fa sì che quando arriva una “
Daybreak” uno si potrebbe pure emozionare, perché sembra una canzone un filino più convinta e genuina, dove il songwriting sembra meno piatto, dove forse le regole della dinamica della distruzione (dei padiglioni auricolari) vengono messe in pratica.
Ma il resto? Sterile riproposizione di stilemi abusati fino alla nausea, al punto che, diciamocela pure tutta, se questa non fosse la band di
Dez Fafara a chi potrebbe mai interessare?
Poi è ovvio che vale sempre il solito discorso. Se vi piace questa musica, se non avete altre pretese che non siano quelle di pogare con il muro della vostra cameretta, se insomma siete di bocca molto buona, allora questo disco vi piacerà.
Per quel che mi riguarda non mi suscita nessuna emozione, se non noia e fastidio.
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