Copertina 8,5

Info

Anno di uscita:2005
Durata:63 min.
Etichetta:Underground Symphony
Distribuzione:Audioglobe

Tracklist

  1. LAST CHANCE
  2. A CRY IN THE DESERT
  3. MISUNDERSTANDINGS
  4. THE GIANT AND THE SHEPHERD
  5. EXODUS
  6. REGRETS
  7. THE CROSS
  8. SO FAR AWAY
  9. HELL IS NOT BURNING
  10. MEMORIES OF A PARADISE LOST
  11. REVENGE
  12. THE AGE OF THE RETURN

Line up

  • Rick Anderson: vocals
  • Andy Menario: guitars, keyboards
  • Maurizio Capitini: drums, percussions
  • Derek Maniscalco: bass

Voto medio utenti

“The age of the return” è un disco semplicemente spettacolare, che ogni “defender” dovrebbe includere senza batter ciglio nella propria collezione e che, anzi, è caratterizzato da una statura artistica talmente elevata da meritare di essere “messo alla prova” anche da tutti i frequentatori delle altre ramificazioni del “metallo”, rischiando magari, in questo modo, di esserne irrimediabilmente affascinati.
La recensione potrebbe anche terminare qui, nel timore di non riuscire a descrivere efficacemente con le parole, la ridda di sensazioni che i Martiria sono stati in grado di comprimere in questo dischetto (mai “vezzeggiativo” è stato meno indicato), ma esigenze “giornalistiche” e soprattutto la necessità “fisica” di comunicare la sua grandezza, m’inducono a continuare.
Il precedente “The eternal soul” era già stato molto più che una piacevole sorpresa, ma bisogna ammettere che la crescita raggiunta dalla band capitolina in questo secondo episodio della saga è stata davvero esponenziale, tanto da sbalordirmi nuovamente, a partire dal significante concept lirico liberamente ispirato al “Libro dei Libri”, sacro codice per il cristianesimo e l’ebraismo (la Bibbia, insomma), che vede ancora una volta coinvolto nella stesura il poeta Marco Capelli, arrivando all’ammaliante componente musicale, oggi ancora più strabiliante ed equilibrata di quella esibita nell’eccellente debutto.
Il mutevole e variegato epic metal dei nostri, trae nuovamente impulso creativo da quella magnificenza al tempo stesso “eroica” e melodica passata alla storia con il nome Warlord, senza però che quest’influenza possa anche solo indurre ad ipotizzare una qualche forma di riproduzione esplicita: semplicemente le due bands sembrano partire dagli stessi presupposti “cultural-musicali” (e da questo punto di vista includerei nella disamina anche i “cugini” Lordian Guard) per approdare a conclusioni in qualche modo assimilabili, ma ognuna con una propria identità specifica, facendo così rivivere quel suono immaginato irripetibile e confermandone la mitica (e spesso citata a sproposito) immortalità.
Rick Anderson (il “Damien King III” di una delle ultime incarnazioni dei “Signori della guerra”, con i quali, peraltro, non era riuscito ad incidere nulla d’ufficiale), rappresenta una sorta di “filo rosso” tra le due formazioni e sebbene il suo timbro e il suo approccio interpretativo siano abbastanza diversi dai suoi “titolati” predecessori, esibisce una dote che a loro lo accomuna: anche senza estensioni sconfinate e abilità tecniche formalmente clamorose, sa “cantare” e vi assicuro che non si tratta di una peculiarità così scontata.
E se Anderson è lo splendido cantore delle emozioni e il primo interlocutore della passionalità suggestiva del Martiria sound, è Andy Menario il vero “condottiero” dell’ensamble, dotato di un’eccezionale sensibilità musicale (e compositiva), che può essere accostato proprio a quel Bill Tsamis, in virtù dell’omologa capacità nell’arte del riff duro ed imprevedibile, opportunamente alternato ad arpeggi di rara bellezza e sostenuto nella sua esibizione da una sezione ritmica possente e precisa, completamente in sintonia con cotanta sontuosità.
Non ci sono brani deboli o “riempitivi” in questo disco ed è sufficiente accostarsi al vigore enfatico di “A cry in the desert”, alla stupefacente “Misunderstandings”, all’evocativa ode di “The Giant and the Sheperd”, al trionfo epico di “Exodus” o alla malia ancestrale di “Regrets” per accorgersene immediatamente.
Come se non bastasse, ecco i neri presagi disegnati dall’epic-doom “monstre” denominato “The cross”, su cui fluisce l’imperiosa conduzione vocale del solito Anderson, in questo caso abilmente supportato dalla moglie Barbara (nel ruolo di Maria Maddalena) e da Gregg Gammon (Pietro), degni contraltari dell’ispirato singer di Redwood City.
Il riff glorioso ed obliquo di “So far away”, la maestosa e caliginosa “Hell is not burning”, le valorose “Memories of a Paradise lost” e ”Revenge” (superba l’immaginifica melodia) e ancora il concentrato di impressivo e coinvolgente ardore “leggendario” della title track, rafforzano la convinzione di un album che non si concede pause creative e in cui gli stessi contributi “operistici” (qui eseguiti dall’ottimo Operton Choir), per i quali avevo, in passato espresso qualche riserva, appaiono perfettamente amalgamati e non invasivi, in una musica che, lo ribadisco, non ha comunque bisogno di “aiuti” particolari per incrementare la sua grandeur.
In un mercato discografico che brucia in brevissimo tempo i propri protetti e che non sembra interessato ad altro che non all’immediata vendibilità di un prodotto, dopo la sezione brasiliana della Hellion Records, è la competente label alessandrina Underground Symphony a credere nella fascinosa proposta dei Martiria e a licenziare questa nuova opera, che viene presentata in un raffinato e “colto” digipack in modo che neanche l’aspetto “estetico” sia trascurato.
E’ giunta, quindi, per i talentuosi romani “L’era del ritorno” e questo appare così convincente, esaltante e prezioso da rappresentare davvero una credibile “pietra di paragone” per ogni altra uscita del settore e il fatto che si tratti di un disco italiano, speriamo non ne riduca le potenzialità commerciali a causa della nostra atavica esterofilia o dell’ottusità di un’audience (o stampa) straniera per la quale l’italian way dell’heavy metal “deve” passare per forza attraverso il consunto canovaccio del power speed sinfonico.
Sarebbe una vera “sofferenza” (oltre che un’immane ca … ehm … nefandezza) se i Martiria non dovessero affermarsi a vantaggio, per esempio, di una serie di Hammerfall qualunque (non che gli svedesi siano particolarmente “colpevoli”, anzi è innegabile la loro importanza per il rilancio di un certo tipo di sonorità, dopo un lungo periodo d’oblio … ma la loro sopravvalutazione mi sembra parecchio evidente) e non riuscissero a diventare un altro importante caposaldo dell’Olimpo del metallo internazionale, un ruolo che gli spetta di diritto.
Oscar Wilde sosteneva che la musica è il genere d’arte perfetto, non potendo mai rivelare il suo segreto più nascosto … cercare di scoprirlo tramite l’audizione di dischi come questo è tuttavia sempre un gran piacere.
Recensione a cura di Marco Aimasso

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