Il prog rock avventuroso e complessivamente innovativo dei
Seven Impale ha scosso più di un ascoltatore negli ultimi anni. Nonostante la giovane età (sono attivi solo dal 2013), questi norvegesi di Bergen (per la cronaca, città natale anche dei Major Parkinson) devono la loro fama a una proposta musicale proiettata nel futuro (loro stessi citano artisti un po' "azzardati" quali Tool e Meshuggah) ma fortemente ancorata al passato (la presenza incrociata di sax e tastiere ricorda senza ombra di dubbio certe sonorità Seventies).
"Contrapasso" riprende il discorso iniziato con
"City Of The Sun" e cerca di smussare (in parte) alcuni spigoli dell'esordio ampliando, allo stesso tempo, la varietà dei "generi" musicali da cui attingere.
"Lemma", ad esempio, è caratterizzata da un innegabile incedere progressivo, ma il cantato enfatico e a tratti recitato potrebbe far pensare a certa dark wave della decade successiva. Le aperture jazz di
"Heresy" suonano invece un po' più scontate e profumano di King Crimson e di Van Der Graaf Generator, così come
"Inertia" acuisce i tratti caotici e indie/alternative già apprezzati nei The Mars Volta.
"Langour" è crossover-prog allo stato pure, con chitarre dalle timbriche metal, evoluzione soffusa e sinfonicheggiante e un intermezzo sintetico. La breve (e non indispensabile)
"Ascension" prelude a
"Convulsion", traccia che torna a spingere sull'acceleratore e che si concede maggiormente all'elettronica, con una coda che mi ha ricordato i Goblin meno conosciuti.
"Helix" inizia come un videogame e rimane soporifera fino al quinto minuto, quando il cambio di passo è netto e in contrasto con una chiusura di nuovo in punta in piedi.
"Serpentstone" potrebbe tranquillamente essere un brano dei "nuovi" Opeth ma cantato da
Peter Hammill, a cavallo tra momenti heavy e passaggi più intimi. Chiude il lavoro
"Phoenix", undici minuti dedicati allo sviluppo di una cellula ritmica secondo una costruzione che potrebbe riecheggiare le campane tubolari di
Mike Oldfield (ma ancora una volta non si può non sentire pure il Re Cremisi).
Il sound dei
Seven Impale non mi ha entusiasmato all'inizio e non mi ha fatto cambiare idea questa volta. Anzi, forse già al secondo disco si possono intravedere i limiti di una proposta sì originale ma un po' autoreferenziale e "a rischio implosione", tanta è la voglia di voler "fondere tutto" a tutti i costi. Detto ciò (per ora) "il tetto della casa tiene", per cui godiamoci questo full-length e rimandiamo l'ipercriticismo al prossimo album.
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