Arduo inventare qualcosa nel campo del
rock “classico”.
Lo sanno bene gli estimatori del genere (che di norma, peraltro, non amano molto le innovazioni …) e ne sono consapevoli gli innumerevoli interpreti di quei suoni così rigorosi e ancora di grande effetto, come testimonia l’attuale panorama discografico internazionale.
Il problema, insomma, e lo abbiamo già affermato in più di un’occasione, è l’approccio alla “materia” ed ecco che i
Witchwood dimostrano che ci si può esprimere all’interno di settori musicali ampiamente collaudati senza scadere nel manierismo o nell’abuso dei
cliché.
Sarà una questione di cultura (che non dimentica la leggendaria storia del “Pop italiano” dei
seventies), di sensibilità o di un’innata attitudine, ma il modo intenso e profondo con cui il gruppo italiano frequenta le lande dell’
hard-prog-rock ha davvero qualcosa d’inusitato.
Dopo lo straordinario “
Litanies from the woods”, arriva oggi il “mini” (per modo di dire, vista la durata …)
Cd “
Handful of stars” a confermare una capacità superiore nella “lettura critica” della tradizione, sostenuta da uno slancio espressivo che riesce a distinguerli ancora una volta nettamente dalla massa.
Tre inediti, due
cover e la versione estesa del gioiellino misticheggiante (già apprezzato nell’albo di debutto) che dà il titolo all’opera, identificano nitidamente l’effige di una
band che ha talmente metabolizzato nel proprio
DNA i colossi del settore da riuscire a ri-codificarne con maturità e temperamento i nobilissimi cromosomi artistici.
Guidati da un’imponente ispirazione e da un’impeccabile sapienza esecutiva, i
Witchwood svettano fin da subito con “
Like a giant in a cage”, una dissertazione Deep Purple-iana di enorme efficacia, per poi incanalarsi, con “
A grave is the river”, in una forma di magnetica e vibrante suggestione emotiva, completata nei sette minuti abbondanti del pigro, mantrico e bucolico andamento vagamente
Zeppelinesco di “
Mother”, con
"Ricky" Dal Pane autore di una strepitosa prova vocale grondante
pathos.
Anche nell’insidiosa pratica dei
remake gli emiliano-romagnoli ostentano un’eccellenza rara … sia “
Flaming telepaths” dei (troppo spesso sottovalutati) Blue Öyster Cult e sia “
Rainbow demon” degli Uriah Heep mescolano devozione e vitalità raggiungendo un obiettivo fallito da molti: non far rimpiangere le versioni originali dei brani.
Credetemi, in quanto a freschezza, vocazione e intensità, nell’ambito del cosiddetto
vintage rock, difficilmente in giro troverete di meglio.
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