Sono fermamente convinto che il mondo della musica attuale avrebbe bisogno di un numero maggiore di artisti come i
Be The Wolf.
“Gente” profondamente innamorata del
rock, del
funk, del
blues e del
pop e che ha la cultura e la “freschezza” per mescolarli vorticosamente senza preoccuparsi di questioni di “genere” o di “appartenenza”.
Certo, poi, ci vogliono anche la tecnica adeguata e un notevole talento nello scrivere “belle canzoni”, alchimie musicali capaci di coniugare stili e suggestioni, agevolmente “fruibili” senza apparire stucchevoli, eccessivamente derivative o semplicemente anonime.
“
Rouge” è la testimonianza lampante di un gruppo eclettico, maggiormente maturo e “libero” rispetto al pur parecchio interessante debutto “
Imago”, formato da ragazzi preparati e sagaci, attenti alla “storia” del
rock ma non per questo refrattari alle sue evoluzioni recenti.
Una
band “moderna” o, per meglio dire, una formazione vitale che non si accontenta di riprodurre formule ampiamente collaudate e cerca, centrando spesso l’encomiabile risultato, di fornire una propria “versione dei fatti” sfruttando con disinvoltura un’ampia gamma di soluzioni espressive.
Nel programma troverete richiami a Led Zeppelin, Incubus, Deep Purple, Royal Blood, The Black Keys, Maroon 5 e Wolfmother, e tuttavia non avrete mai la sensazione di trovarvi di fronte a qualcosa di palesemente “già sentito”, allo stesso modo in cui anche nei frangenti più “commerciali” il disco si mantiene nell’ambito di un’orecchiabilità “intelligente”, sfuggendo alla banalità imperante di troppe sedicenti
new-sensations della scena contemporanea.
Difficile trovare un episodio debole o poco ispirato … dalle vibranti scansioni
hard di “
Phenomenons” alle scorie
garage di “
Freedom” e della guizzante “
Peeps” (piacerà ai fans di The Strokes e Jet), passando per le vaporosità altamente infettive di “
Blah blah blah” e approdando a un’incalzante “
Gold diggers”, al tempo stesso adescante ed energizzante, tutto il secondo lavoro dei
Be The Wolf illumina i sensi di cospicua soddisfazione
cardio-uditiva.
Senza smentire quanto appena affermato, consiglio in ogni caso all’astante di soffermarsi in particolare su “
Down to the river”, un’emozionante ballata malinconica (in cui l’ottimo
Federico Mondelli fa fruttare al meglio le fascinose sfumature
Cornell-iane della sua voce), sulle progressioni soniche e sulla melodia irresistibile di “
Animals”, sulle sognanti pastosità di “
Shibuya” (che omaggia il Giappone combinando qualcosa dei Kiss con il migliore
Lenny Kravitz!) e sulle raffinate pulsazioni anthemiche di "
Rise up together”, materiale che riferisce in maniera davvero inequivocabile delle qualità non comuni del trio torinese.
Cosa si può chiedere di più a un gruppo
rock “emergente” attivo nella dilagante stagflazione del terzo millennio? Forse solo una copertina un po’ meno “essenziale”, magari …
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